martedì 22 gennaio 2008

Tanto tuonò che piovve

Joseph Beuys - Terremoto in palazzo
Installazione permanente Terrae Motus - Reggia di Caserta


Paul Ginsborg nel suo saggio La democrazia che non c’è, al termine di un immaginario incontro tra Karl Marx e John Stuart Mill avvenuto nel 1873, individua un punto di contatto tra i due pensatori: «l’ammissione di tutti ad aver parte del potere sovrano dello stato», ovvero la necessità che uomini e donne siano «soggetti attivi» in politica come nel sociale.


Secca la constatazione finale: «Nessuno di questi obiettivi è stato realizzato». Non meno accattivante il filo conduttore, intessuto dalla riscontrata necessità di individuare forme e prassi che combinino la democrazia rappresentativa con quella partecipativa, «al fine di migliorare la qualità della prima tramite il contributo della seconda».
Quell’unico filo che passa anche attraverso le trame di un terremoto che ha scosso il palazzo appena qualche giorno fa.

Non credo si sia abbastanza riflettuto: nel fatidico 16 gennaio 2008, che ha visto repentinamente assurgere ai ranghi della cronaca giudiziaria il paradigma di quello che ormai sembrava un consolidato apparato di potere – destinato ad avere lunga vita -, la Corte Costituzionale ha dato il «via libera» ai referendum elettorali.

Senza volere entrare nel merito dell’inchiesta che ha travolto un intero partito (ma che, nei suoi contenuti, mette sotto accusa un discutibile modo – purtroppo diffuso - di intendere la politica), né analizzare in concreto gli effetti del referendum abrogativo, la reductio ad unitatem è doverosa: la negazione della politica – che fonda la sua perversa sintesi nel perseguimento spasmodico dell’interesse di pochi a danno dei molti – trova il suo contraltare in un’affermazione di democrazia partecipativa, che mira a scardinare gli effetti distorsivi di un partitismo famelico che, nella gestione autoreferenziale del potere e della cosa pubblica, pare avere dimenticato il senso dell’art. 49 della Costituzione (che riconosce a «Tutti i cittadini» il diritto di concorrere alla vita democratica del paese).

Se l’apparato di Palazzo (senza distinzione di schieramento) ha inteso abdicare ai valori fondanti della democrazia, che, messo al bando l’interesse dei pochi, dovrebbero interpretare la politica come impegno e tensione civile, ciò non vuol dire che occorre gettare la spugna. Così come, alle cicliche accuse rivolte con vittimismo alla Magistratura (unico baluardo che continua a dar prova di essere soggetto solo alla Legge), è pur sempre agevole replicare che, al di là delle presunte responsabilità penali da accertare, il «buon andamento» e l’«imparzialità dell’amministrazione», innegabilmente messi a dura prova dallo status quo, a Costituzione immutata, continuano a costituire principi fondamentali (art. 97 Cost.) che dovrebbero informare non solo l’azione amministrativa in astratto, ma l’attività di chiunque sia chiamato, anche in via elettiva, a ricoprire incarichi pubblici.

Scriveva Mill (Considerazioni sul governo rappresentativo, 1861) che il popolo deve possedere il potere di controllo ultimo, nella sua pienezza; deve cioè essere «padrone a suo piacimento, di tutte le funzioni di governo».


Quotidianamente assistiamo ad una «espropriazione» di fatto dei meccanismi di partecipazione democratica ad opera delle «botteghe» di partito e dei loro conventicoli.


E il perverso meccanismo elettorale tenacemente voluto dalla precedente maggioranza – ma non adeguatamente avversato dalla presente – rappresenta la summa di un tale modo di sentire.


In queste ore non riusciamo a prevedere le sorti della XV legislatura. Non si può però fare a meno di osservare come lo «spauracchio» referendario (ma soprattutto la vis sottesa) abbia chiamato a raccolta, da destra a manca, i sostenitori della riforma elettorale dell’ultim’ora.


Da addetto ai lavori non posso che scuotere la testa quando sento i politici di turno convinti che una modifica sic et simpliciter della legge elettorale, quale che sia, sarebbe in grado di allontanare lo spettro del referendum. Mi accorgo come sia corta la memoria (ma probabilmente vuota), visto che i personaggi in questione ignorano che, come statuito in via additiva dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza 17 maggio 1978 n. 68 (in tema di illegittimità dell’art. 39 della L. 352/79), occorre in ogni caso indagare sull’«intenzione del legislatore». Laddove questa rimanga sostanzialmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio, «la corrispondente richiesta [di referendum] non può essere bloccata», perché, come ricorda la Consulta, «diversamente la sovranità del popolo (attivata da quella iniziativa) verrebbe ridotta ad una mera apparenza». Non occorre spingersi oltre, non è questa la sede.


L’effettività della sovranità è un bene troppo prezioso per essere delegato. Tanto più perché venga «espropriato» in via definitiva.