mercoledì 24 dicembre 2008

Attese di coralità. Auguri!


Spento finalmente ogni altro fuoco,
nel Tempio, fattosi ora silente,
si adunino le gloriose Immagini.
E l'arida steppa intorno
riprenda a fiorire
mentre tu guidi la danza.
Non chiedo di assidermi al vostro banchetto,
non è per me - ho cantato - un'avventura sì grande,
sapermi una voce del Coro è già dono
che placa tutte le attese:
ciò che più chiedo è una mente
luminosa e serena
(David M. Turoldo - da Mie notti con Qoelet)
Partecipazione e coralità.
L'augurio per queste feste è che si concretizzi, in ogni coscienza di cittadino, l'insopprimibile esigenza di concorrere al bene comune. Al di là dei compromessi e contro ogni condizionamento.
Dalla ristretta cerchia dell'io, al tutto del "noi".
Non fermiamoci. Rimettiamoci in cammino.

domenica 30 novembre 2008

Un uomo


La dimensione pubblica che si intreccia con l’esperienza intima della persona – la più recondita e inesplorabile - . Una tragedia umana, quella di Giorgio Nugnes, che invita a riflettere sulla fragilità umana e sull’effetto dirompente della solitudine interiore cui si può essere, nostro malgrado, sospinti sulla scia dell’indifferenza di chi ci circonda – pronto ad alimentare le amicizie solamente secondo parametri di interesse -. Mediaticità (indotta dalla ricerca del sensazionale a tutti i costi) e interiorità che si elidono a vicenda.
Il momento di «generale sofferenza» per la nostra città, come ha ricordato il frate francescano celebrante nella cappella delle Clarisse, può essere superata solo dal nostro essere-uniti per la costruzione di un reale bene comune, che costituisce la risultante di rapporti autentici ed energie disinteressate.

martedì 5 agosto 2008

La capitale dell'autoinganno. Come continuare a non sentirsi "stupidi" e non vivere solo di "simpatia". Uccidiamo Pulcinella?


L'intervento di un blogger nel precedente post, me ne ha ispirato uno nuovo. Mi piace prendere spunto da un articolo di Raffaele La Capria, "Napoli, quando la simpatia non basta più", pubblicato sul Corriere della Sera del 20 luglio scorso.
In particolar modo, lo scrittore rievoca alcune riflessioni (tutte positive) di noti autori (rigorosamente non napoletani) sulla "città" e i suoi abitanti.
A tal proposito, Guido Piovene, dopo aver definito Napoli e i napoletani «ondeggianti tra l' autocritica e l' autoinganno» (io propenderei solo per la seconda delle due caratteristiche) richiama un aneddoto che vede protagonista un intellettuale francese giunto (e stabilitosi) a Napoli per una missione culturale. Il transalpino ostenta un motto sulla soglia del proprio ufficio: "Chi non ama Napoli è uno Stupido".
Il dilemma che si pone La Capria - dopo avere constatato che il novero degli "stupidi" è cresciuto ultimamente a dismisura - è se egli stesso - partenopeo "in esilio" (come tanti) -, per caso, non sia diventato tale.
Forse in tanti siamo a porci la domanda. Dobbiamo ritenerci (o ci sentiamo) "stupidi" anche noi? Napoli non è più un luogo dell'anima. O, meglio, lo è, ma non risponde più alle nostre aspirazioni.
Forse è per questo che è arrivato il momento di "ammazzare" (freudianamente) Pulcinella.
Ormai è l'autoinganno a farla da padrona. E il "partenopeo" ama caderne vittima. Fingere di non vedere, continuare a dire, ingannandosi, in una città priva di finestre sulla realtà, che tutto il mondo è paese e "tirare a campare".
E' andata sempre così. Dalle croniche emergenze all'ordinaria vita civile.

sabato 2 agosto 2008

Ricominciamo?



Quando è cominciato il declino di Napoli? Giuseppe Montesano, nel prologo a "Due celebri delitti" - una recentissima (ri)edizione di due racconti (Giovanna di Napoli e Nisida) scritti da Dumas e ambientati a Napoli -, si interroga sull'eterno dilemma, senza pervenire ad una compiuta risposta.
Per lungo tempo non ho scritto post. Mi sono arrovellato, quasi paralizzato dall'impossibilità di continuare a "costruire" parole, senza riuscire a trovare una via d'uscita o, quanto meno, garantire un apporto costruttivo - per me, persona concreta per natura e professione, condizione imprescindibile-.
E intanto vedevo nuovamente crescere l'enfasi contraddittoria che da sempre caratterizza la nostra storia.
Contraddizioni che stridono da sempre nella quotidianità, come questa recente immagine di Piazza Banchi Nuovi (centro storico, a due passi da Università Orientale, S. Chiara e Gesù nuovo), dove il logo della II municipalità - sintesi inerte dell'inutile decentramento amministrativo - sovrasta il quotidiano cumulo di immondizia (Berlusconi avvisato: a dispetto dei suoi spot, la crisi è endemica e lungi dall'essere superata) in un tripudio di degrado capace di far trasecolare l'UNESCO che, indegnamente, anni fa (sulla scia dell'adagio bassoliniano "città d'arte" e "museo all'aria aperta") ha voluto inserire il centro storico di Napoli nella lista del Patrimonio dell'Umanità.

mercoledì 2 luglio 2008

Ricominciamo da qui.

Napoli, 2 luglio 2008. Piazza Plebiscito: simbolo di questa città immutabile, nel bene e nel male.

Due orchestre sinfoniche e due cori, uniti dalla prestigiosa bacchetta di Zubin Mehta.

Un evento senza pari nel passato, questa Nona di Beethoven.

“Fate presto”, titolava a nove colonne il Mattino del 24 novembre 1980, storicamente eternato in una provocatoria (e dimenticata) opera di Andy Warhol. “Fare qualcosa per una Napoli culla di cultura e di una straordinaria civiltà musicale, oggi mortificata e oltraggiata” dice oggi il grande Zubin Mehta, che rinuncia al suo cachet (quasi un monito ai nostri politicanti locali, spesso pronti ad accapigliarsi per un incarico, una poltrona o, peggio, un gettone) per dirigere quella che definisce “sigla ideale per una rinascita”.

Raccogliamo l’auspicio del Maestro. Vorremmo che fosse così. Dobbiamo e vogliamo crederci. A condizione di recuperare la nostra dignità di cittadini.

Avrete notato la mia assenza, da un po’ di tempo, dal blog e da varie occasioni di dibattito pubblico. E’ una provocazione in un momento in cui il ciclico dibattito polemico sulla città e sulle sue “magnifiche sorti” sta dando segno di stabile cronicizzazione, il tutto ad alimentare solo parole in un momento in cui dovrebbe prevalere finalmente il senso di un civico fare, espressione dell’essere-comunità.

Lasciamo, almeno oggi, parlare il linguaggio universale ed eterno della musica.

mercoledì 30 aprile 2008

Il re è nudo! Ovvero: se non diventerete come bambini.

Un re vanitoso, dedito alla perenne cura del suo aspetto esteriore e del suo abbigliamento.

Degli imbonitori che, sotto le mentite spoglie di abili tessitori, convincendolo delle loro straordinarie capacità, pontificano le qualità del formidabile tessuto che essi soli intessono, sottile, leggero e incomparabile, con la peculiarità di risultare invisibile agli stolti e agli indegni.

Uno stuolo di cortigiani che, pur non riuscendo a vedere il “formidabile” ordito, lodano la magnificenza del tessuto del sovrano.

Il re, che, pur rendendosi conto di non essere neppure lui in grado di vedere alcunché (così come i cortigiani menzogneri), si mostra estasiato per il lavoro dei tessitori, al punto da sfilare col suo “nuovo vestito” per le vie della città tra nugoli di folla paludente che loda a gran voce l'eleganza del sovrano.

Un incantesimo che si spezza, quando, nella sua disarmante semplicità, un bimbo grida: “Il re è nudo!”.

Non occorre aggiungere altro. La notissima fiaba parla da sé.
Il re è nudo. Lo sapevamo? Lo abbiamo detto? Abbiamo avuto il coraggio di gridarlo? Oppure lo abbiamo fatto, ma non siamo stati ascoltati?
Sono stati giorni di repentini cambiamenti, in cui la realtà ha superato l’immaginazione, o, meglio le aspettative – tranne che per chi si era accorto, da tempo, che effettivamente il re era nudo e lo aveva detto – .
Analisi su analisi, l’unica verità è costituita dall’incapacità di leggere la realtà e mettersi in discussione, specialmente dopo i molteplici segnali.

E di recente non sono mancati i paradossi sintetizzabili in commenti – avulsi dalla realtà– che parlavano di improbabili di vittorie locali del PD (cito una tra tutte: “In Campania il PD è cresciuto”), pur di non avviare un reale percorso costituente, volto a ridiscutere metodi, mezzi, strumenti, persone e processi di inclusione democratica, che consentissero (ma aggiungo: consentano) concretamente di dare corpo e forma ad un progetto che, in potenza, si dimostra innovativo e realmente in grado di imprimere un importante corso politico.

Abbiamo fugacemente riflettuto, senza la pretesa di compiere un’analisi esaustiva, sul dato elettorale. Ora, dopo Roma, l’ennesima conferma.

L’incapacità di interpretare i segnali che provengono dal basso, ha fatto il resto. Una incolmabile frattura che attende di essere colmata. Dialogo biunivoco, attitudine a far tesoro anche delle ragioni dei dissensi interni, e partecipazione «orizzontale» sono passaggi imprescindibili. Democrazia partecipata e di «prossimità» gli obiettivi.

Si apre una nuova fase di riflessione.

Questo post si inserisce tra due importanti date: il 25 aprile, anniversario della Liberazione, e il Primo maggio, festa dei lavoratori.

Alla nostra Costituzione, nel suo sessantesimo anniversario, ai suoi Valori fondanti, che poggiano su quel moto di orgoglio che unì l’Italia tutta e in particolare Napoli, medaglia d’oro della Resistenza, - città oggi purtroppo vittima della sua stessa disillusione -, dobbiamo ancora una volta, oggi, guardare.

martedì 15 aprile 2008

E' morto il re. Viva il re!


Nel sessantesimo anniversario della nostra Carta costituzionale un terremoto geopolitico sconvolge i tradizionali assetti della rappresentanza parlamentare.

Un processo di semplificazione netta indotto da un sistema elettorale che, con le sue soglie di sbarramento, non lasciava scampo.

Al di là del risultato, sicuramente ne esce vincente l’intuizione di Walter Veltroni e la sua scelta di lanciare, da solo, il Partito Democratico verso una nuova stagione del Paese. Idea che ha sbaragliato l’avversario, indotto a fare – in parte – altrettanto con una “coalizione” simil–partito, salvo – quest’ultimo – travolgere a sua volta il primo in termini elettorali e conquistare la maggioranza (ma questo è un discorso a parte).

Tuttavia va anche riflettuto sul significato (e sugli effetti) dell’estromissione, dal Parlamento, di storiche esperienze politiche (socialisti e sinistra radicale), espressione di valori identitari forti (anche per tradizione), oltre che di una significativa fetta di elettorato rimasta priva di rappresentanti.

Riflessione, questa, che si fa più pregnante se solo si considera che alla nuova fase costituente parteciperanno auspicabilmente (al bando ogni riforma delle istituzioni a colpi di maggioranza) due soli grandi partiti, oltre ad un movimento a fortissima connotazione localistica (e al suo relativo micro-clone), mentre alla stesura della nostra sessantennale (ma sempre nuova nei valori) Costituzione presero parte tutte le espressioni politiche del Paese. Non senza dimenticare che i maldestri tentativi di modificare unilateralmente i sapienti equilibri di pesi e contrappesi dei nostri padri costituenti sono prima o poi destinati a fallire, come ammonisce il maturo risultato del referendum costituzionale con il quale il popolo italiano – dimostrando alta sensibilità istituzionale - bocciò il pessimo disegno di legge partorito dai “saggi” del centrodestra tra il 2004 e il 2005. E di tale volontà popolare non potrà non tenersi conto nel ridisegnare l’assetto complessivo dello Stato, salvo dare sprezzante prova di un atteggiamento di aperta rottura nei confronti della prassi costituzionale.

Il cammino da compiere, in definitiva, è ancora lungo e bisognerà attendersi degli assestamenti che pongano in atto nuovi processi inclusivi attraverso meccanismi compensativi.

Al tempo stesso è il momento di ripartire dal basso e riscoprire il sempre più senso di una democrazia che nasce dalla gente e si alimenta di dialogo e discussione, facendo tesoro di quanto l’esercizio dialettico mette in luce giorno per giorno.

giovedì 10 aprile 2008

My deliberative democracy

Lasciata alle spalle la crisi di rappresentatività indotta da un sistema politico bloccato ed autoreferenziale, il nuovo traguardo è rappresentato dall’evoluzione verso una democrazia deliberativa.
Avendo ben presente, mutuandola dalla lingua inglese, la doppia radice semantica dell’aggettivo «deliberativo» (deliberative), inteso al tempo stesso come espressione sinonimo di «decisione», ma anche di «discussione».
Mi piace, allora, pensare ad una «democrazia di prossimità», dove la partecipazione dal basso diviene essenza stessa della politica, aspirando ad un rapporto osmotico governanti – governati nell'ambito di processi inclusivi.
In un momento storico in cui la contumelia dell’attacco alle Istituzioni – espressione dei valori costituzionali in cui noi tutti dobbiamo riconoscerci - è eretta a stile di vita e costituisce l’indice sistematico di una insofferenza verso tutto ciò che ci unisce nel bene come «cittadini», e dove la demagogica fuga dalle responsabilità (compreso il disinteresse per la cosa comune e la tentazione di astenersi in occasione delle competizioni elettorali) diviene la strada più facile da percorrere da parte di persone comprensibilmente deluse, ritengo più che mai necessario un moto di orgoglio da parte di ciascuno.
La democrazia cammina sulle nostre gambe. Non fermiamoci.

mercoledì 27 febbraio 2008

Cercasi un fine. Ovvero: al voto, al voto!


«Cercasi un fine.

Bisogna che sia onesto. Grande.

Il fine giusto è dedicarsi al prossimo.

E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola?

Siamo sovrani. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte.

Ma questo è solo il fine ultimo da ricordare ogni tanto.

Quello immediato da ricordare minuto per minuto è d’intendere gli altri e farsi intendere».

Così tuonava Lorenzo Milani circa quarant’anni fa.

Veniamo ai nostri giorni: al voto, al voto! E un referendum nel cassetto. Una coraggiosa e rivoluzionaria scelta di semplificazione – quella di “Uolter” – che pare mettere in crisi meccanismi consolidati. Ora alla prova del nove: la formazione delle liste. Vecchi privilegi, successioni dinastiche e modalità di cooptazione duri a morire. Eppure sarebbe così semplice se il fine fosse sempre uno solo, quello del "servizio" alla collettività. Perché in questo caso – al bando la brama del cursus honorum (molto in voga soprattutto dalle nostre parti) – il motore sarebbe quello del percorso condiviso tra chi è chiamato a farsi rappresentante e chi rappresentato.

Compiuti i tradizionali riti della politica, è arrivato, ancora una volta, il tempo delle scelte.

Invertiamo l’ordine e la dinamica del discorso. L’espressione "tempo delle scelte", così estrapolata rievocherebbe un discorso da "unti del Signore", che, sotto minaccia di chi sa quali sciagure, incitano alle scelte "giuste" – quelle, cioè, che si riconducono «solo» alla «loro» ricetta (calata dall’alto) –.

Il riferimento alla «sovranità», però, ristabilisce gli equilibri: il processo decisionale si muove dal basso verso l’alto, e non viceversa.

Dunque, basta elemosine. Riscopriamo il senso di "sovranità". Rivendichiamo un ruolo attivo, il "nostro" inalienabile diritto a "concorrere" personalmente con metodo democratico alla vita del paese. Non consentiamo «espropri».

Il rinnovamento nasce da noi. Perché come abbiamo già ricordato: "Tocchi in un punto e…".

martedì 22 gennaio 2008

Tanto tuonò che piovve

Joseph Beuys - Terremoto in palazzo
Installazione permanente Terrae Motus - Reggia di Caserta


Paul Ginsborg nel suo saggio La democrazia che non c’è, al termine di un immaginario incontro tra Karl Marx e John Stuart Mill avvenuto nel 1873, individua un punto di contatto tra i due pensatori: «l’ammissione di tutti ad aver parte del potere sovrano dello stato», ovvero la necessità che uomini e donne siano «soggetti attivi» in politica come nel sociale.


Secca la constatazione finale: «Nessuno di questi obiettivi è stato realizzato». Non meno accattivante il filo conduttore, intessuto dalla riscontrata necessità di individuare forme e prassi che combinino la democrazia rappresentativa con quella partecipativa, «al fine di migliorare la qualità della prima tramite il contributo della seconda».
Quell’unico filo che passa anche attraverso le trame di un terremoto che ha scosso il palazzo appena qualche giorno fa.

Non credo si sia abbastanza riflettuto: nel fatidico 16 gennaio 2008, che ha visto repentinamente assurgere ai ranghi della cronaca giudiziaria il paradigma di quello che ormai sembrava un consolidato apparato di potere – destinato ad avere lunga vita -, la Corte Costituzionale ha dato il «via libera» ai referendum elettorali.

Senza volere entrare nel merito dell’inchiesta che ha travolto un intero partito (ma che, nei suoi contenuti, mette sotto accusa un discutibile modo – purtroppo diffuso - di intendere la politica), né analizzare in concreto gli effetti del referendum abrogativo, la reductio ad unitatem è doverosa: la negazione della politica – che fonda la sua perversa sintesi nel perseguimento spasmodico dell’interesse di pochi a danno dei molti – trova il suo contraltare in un’affermazione di democrazia partecipativa, che mira a scardinare gli effetti distorsivi di un partitismo famelico che, nella gestione autoreferenziale del potere e della cosa pubblica, pare avere dimenticato il senso dell’art. 49 della Costituzione (che riconosce a «Tutti i cittadini» il diritto di concorrere alla vita democratica del paese).

Se l’apparato di Palazzo (senza distinzione di schieramento) ha inteso abdicare ai valori fondanti della democrazia, che, messo al bando l’interesse dei pochi, dovrebbero interpretare la politica come impegno e tensione civile, ciò non vuol dire che occorre gettare la spugna. Così come, alle cicliche accuse rivolte con vittimismo alla Magistratura (unico baluardo che continua a dar prova di essere soggetto solo alla Legge), è pur sempre agevole replicare che, al di là delle presunte responsabilità penali da accertare, il «buon andamento» e l’«imparzialità dell’amministrazione», innegabilmente messi a dura prova dallo status quo, a Costituzione immutata, continuano a costituire principi fondamentali (art. 97 Cost.) che dovrebbero informare non solo l’azione amministrativa in astratto, ma l’attività di chiunque sia chiamato, anche in via elettiva, a ricoprire incarichi pubblici.

Scriveva Mill (Considerazioni sul governo rappresentativo, 1861) che il popolo deve possedere il potere di controllo ultimo, nella sua pienezza; deve cioè essere «padrone a suo piacimento, di tutte le funzioni di governo».


Quotidianamente assistiamo ad una «espropriazione» di fatto dei meccanismi di partecipazione democratica ad opera delle «botteghe» di partito e dei loro conventicoli.


E il perverso meccanismo elettorale tenacemente voluto dalla precedente maggioranza – ma non adeguatamente avversato dalla presente – rappresenta la summa di un tale modo di sentire.


In queste ore non riusciamo a prevedere le sorti della XV legislatura. Non si può però fare a meno di osservare come lo «spauracchio» referendario (ma soprattutto la vis sottesa) abbia chiamato a raccolta, da destra a manca, i sostenitori della riforma elettorale dell’ultim’ora.


Da addetto ai lavori non posso che scuotere la testa quando sento i politici di turno convinti che una modifica sic et simpliciter della legge elettorale, quale che sia, sarebbe in grado di allontanare lo spettro del referendum. Mi accorgo come sia corta la memoria (ma probabilmente vuota), visto che i personaggi in questione ignorano che, come statuito in via additiva dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza 17 maggio 1978 n. 68 (in tema di illegittimità dell’art. 39 della L. 352/79), occorre in ogni caso indagare sull’«intenzione del legislatore». Laddove questa rimanga sostanzialmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio, «la corrispondente richiesta [di referendum] non può essere bloccata», perché, come ricorda la Consulta, «diversamente la sovranità del popolo (attivata da quella iniziativa) verrebbe ridotta ad una mera apparenza». Non occorre spingersi oltre, non è questa la sede.


L’effettività della sovranità è un bene troppo prezioso per essere delegato. Tanto più perché venga «espropriato» in via definitiva.

martedì 8 gennaio 2008

Io so


Non è il caso di scomodare Calvino e, da "Le città invisibili" (come abbiamo già fatto in un precedente, quasi profetico, post), l'immaginifico archetipo di Leonia, la cui arte eccelle nel fabbricare nuovi materiali e nel migliorare la sostanza della sua, che resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. Sarebbe fin troppo scontato.

Quella Leonia, che più espelle roba, più ne accumula, conservando tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d'ieri che si ammucchiano sulle spazzature dell'altro ieri.
Pianura anno zero.

Ripartiamo da dove siamo partiti. Dodici anni fa.

Il paradigma della sconfitta di una battaglia mai intrapresa. A tutto vantaggio di quanti hanno sguazzato nell'emergenza.

Camorristi, politicanti, avventurieri della pubblica prebenda, pseudoconsulenti, dissipatori di ricchezza pubblica.

Aria di disfatta. Quale che sia il destino che attende le "discariche in pectore", con l'interrogativo sempre aperto di misteri irrisolti (ad esempio, termovalorizzatori a parte - caduti vittime dei noti e comprensibili ritardi - , qualcuno ci spieghi perché, dopo avere sperimentato tutti i colori dell'arcobaleno in sacchetti , a Napoli la differenziata non può essere realtà e siamo tornati alle "campane").

E' la parabola di una storia, iniziata quindici anni fa, e che oggi vede sconfitti tutti noi cittadini.

Abbiamo creduto nella possibilità di una riappropriazione democratica delle istituzioni e della nostra vita civile.

E invece no. Perennemente estromessi da ogni momento decisionale e di partecipazione civile. A tutto favore di quanti, in questi anni, tronfi del loro cortigiano vagare sono stati beneficati, nell'assoluto trionfo dell'improvvisazione, del dilettantismo e della incapacità.

E ora ci provino il contrario.

Chi è responsabile? Quali i nomi? A chi dunque compete fare questi nomi?

Con Pasolini: "Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere".

Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.

Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.

Ancora Pasolini: "Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.

Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici".
Si è parlato di disfattismo e di atteggiamento rinunciatario.
Mi pare, viceversa, che debbano fare mea culpa tutti coloro che hanno attaccato stizziti le voci critiche che si levavano a evidenziare le criticità del sistema e la necessità di ristabilire un dialogo caduto vittima dell'autoreferenzialità; tutti gli artefici, nessuno escluso, della frattura tra società e classe politica.
Per quello che mi riguarda, non posso che sentirmi profondamente deluso.

Per ogni volta in cui la voce "scomoda" nelle stanze del potere è stata salutata con malcelata insofferenza.

Per ogni volta in cui alla onestà intellettuale è stato preferito l'opportunismo palatino, precludendo ai più la partecipazione alla vita della cosa pubblica, senza ricordare che non è "cosa loro", ma "di tutti" - ricordandoci che, qui da noi, non è il caso di mettere in pratica il motto della scuola di Barbiana, "I care". Dobbiamo farci i "fatti nostri". Loro stanno nel palazzo. Noi sudditi.
Per ogni volta in cui, in quanto cittadini, ci è stato impedito di esercitare i nostri diritti e di mettere i talenti di ciascuno a disposizione della collettività, perché c'era sempre l'ennesimo "esperto" di turno che ormai, secondo uno schema consolidato di apparato, era pronto a fare la sua parte e, bontà sua, sollevarci dall'ingrato compito.

In una terra in cui anche il diritto elementare diviene eccezionale non ci sono più alibi. Finalmente.