martedì 8 gennaio 2008

Io so


Non è il caso di scomodare Calvino e, da "Le città invisibili" (come abbiamo già fatto in un precedente, quasi profetico, post), l'immaginifico archetipo di Leonia, la cui arte eccelle nel fabbricare nuovi materiali e nel migliorare la sostanza della sua, che resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. Sarebbe fin troppo scontato.

Quella Leonia, che più espelle roba, più ne accumula, conservando tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d'ieri che si ammucchiano sulle spazzature dell'altro ieri.
Pianura anno zero.

Ripartiamo da dove siamo partiti. Dodici anni fa.

Il paradigma della sconfitta di una battaglia mai intrapresa. A tutto vantaggio di quanti hanno sguazzato nell'emergenza.

Camorristi, politicanti, avventurieri della pubblica prebenda, pseudoconsulenti, dissipatori di ricchezza pubblica.

Aria di disfatta. Quale che sia il destino che attende le "discariche in pectore", con l'interrogativo sempre aperto di misteri irrisolti (ad esempio, termovalorizzatori a parte - caduti vittime dei noti e comprensibili ritardi - , qualcuno ci spieghi perché, dopo avere sperimentato tutti i colori dell'arcobaleno in sacchetti , a Napoli la differenziata non può essere realtà e siamo tornati alle "campane").

E' la parabola di una storia, iniziata quindici anni fa, e che oggi vede sconfitti tutti noi cittadini.

Abbiamo creduto nella possibilità di una riappropriazione democratica delle istituzioni e della nostra vita civile.

E invece no. Perennemente estromessi da ogni momento decisionale e di partecipazione civile. A tutto favore di quanti, in questi anni, tronfi del loro cortigiano vagare sono stati beneficati, nell'assoluto trionfo dell'improvvisazione, del dilettantismo e della incapacità.

E ora ci provino il contrario.

Chi è responsabile? Quali i nomi? A chi dunque compete fare questi nomi?

Con Pasolini: "Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere".

Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.

Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.

Ancora Pasolini: "Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.

Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici".
Si è parlato di disfattismo e di atteggiamento rinunciatario.
Mi pare, viceversa, che debbano fare mea culpa tutti coloro che hanno attaccato stizziti le voci critiche che si levavano a evidenziare le criticità del sistema e la necessità di ristabilire un dialogo caduto vittima dell'autoreferenzialità; tutti gli artefici, nessuno escluso, della frattura tra società e classe politica.
Per quello che mi riguarda, non posso che sentirmi profondamente deluso.

Per ogni volta in cui la voce "scomoda" nelle stanze del potere è stata salutata con malcelata insofferenza.

Per ogni volta in cui alla onestà intellettuale è stato preferito l'opportunismo palatino, precludendo ai più la partecipazione alla vita della cosa pubblica, senza ricordare che non è "cosa loro", ma "di tutti" - ricordandoci che, qui da noi, non è il caso di mettere in pratica il motto della scuola di Barbiana, "I care". Dobbiamo farci i "fatti nostri". Loro stanno nel palazzo. Noi sudditi.
Per ogni volta in cui, in quanto cittadini, ci è stato impedito di esercitare i nostri diritti e di mettere i talenti di ciascuno a disposizione della collettività, perché c'era sempre l'ennesimo "esperto" di turno che ormai, secondo uno schema consolidato di apparato, era pronto a fare la sua parte e, bontà sua, sollevarci dall'ingrato compito.

In una terra in cui anche il diritto elementare diviene eccezionale non ci sono più alibi. Finalmente.