mercoledì 24 dicembre 2008

Attese di coralità. Auguri!


Spento finalmente ogni altro fuoco,
nel Tempio, fattosi ora silente,
si adunino le gloriose Immagini.
E l'arida steppa intorno
riprenda a fiorire
mentre tu guidi la danza.
Non chiedo di assidermi al vostro banchetto,
non è per me - ho cantato - un'avventura sì grande,
sapermi una voce del Coro è già dono
che placa tutte le attese:
ciò che più chiedo è una mente
luminosa e serena
(David M. Turoldo - da Mie notti con Qoelet)
Partecipazione e coralità.
L'augurio per queste feste è che si concretizzi, in ogni coscienza di cittadino, l'insopprimibile esigenza di concorrere al bene comune. Al di là dei compromessi e contro ogni condizionamento.
Dalla ristretta cerchia dell'io, al tutto del "noi".
Non fermiamoci. Rimettiamoci in cammino.

domenica 30 novembre 2008

Un uomo


La dimensione pubblica che si intreccia con l’esperienza intima della persona – la più recondita e inesplorabile - . Una tragedia umana, quella di Giorgio Nugnes, che invita a riflettere sulla fragilità umana e sull’effetto dirompente della solitudine interiore cui si può essere, nostro malgrado, sospinti sulla scia dell’indifferenza di chi ci circonda – pronto ad alimentare le amicizie solamente secondo parametri di interesse -. Mediaticità (indotta dalla ricerca del sensazionale a tutti i costi) e interiorità che si elidono a vicenda.
Il momento di «generale sofferenza» per la nostra città, come ha ricordato il frate francescano celebrante nella cappella delle Clarisse, può essere superata solo dal nostro essere-uniti per la costruzione di un reale bene comune, che costituisce la risultante di rapporti autentici ed energie disinteressate.

martedì 5 agosto 2008

La capitale dell'autoinganno. Come continuare a non sentirsi "stupidi" e non vivere solo di "simpatia". Uccidiamo Pulcinella?


L'intervento di un blogger nel precedente post, me ne ha ispirato uno nuovo. Mi piace prendere spunto da un articolo di Raffaele La Capria, "Napoli, quando la simpatia non basta più", pubblicato sul Corriere della Sera del 20 luglio scorso.
In particolar modo, lo scrittore rievoca alcune riflessioni (tutte positive) di noti autori (rigorosamente non napoletani) sulla "città" e i suoi abitanti.
A tal proposito, Guido Piovene, dopo aver definito Napoli e i napoletani «ondeggianti tra l' autocritica e l' autoinganno» (io propenderei solo per la seconda delle due caratteristiche) richiama un aneddoto che vede protagonista un intellettuale francese giunto (e stabilitosi) a Napoli per una missione culturale. Il transalpino ostenta un motto sulla soglia del proprio ufficio: "Chi non ama Napoli è uno Stupido".
Il dilemma che si pone La Capria - dopo avere constatato che il novero degli "stupidi" è cresciuto ultimamente a dismisura - è se egli stesso - partenopeo "in esilio" (come tanti) -, per caso, non sia diventato tale.
Forse in tanti siamo a porci la domanda. Dobbiamo ritenerci (o ci sentiamo) "stupidi" anche noi? Napoli non è più un luogo dell'anima. O, meglio, lo è, ma non risponde più alle nostre aspirazioni.
Forse è per questo che è arrivato il momento di "ammazzare" (freudianamente) Pulcinella.
Ormai è l'autoinganno a farla da padrona. E il "partenopeo" ama caderne vittima. Fingere di non vedere, continuare a dire, ingannandosi, in una città priva di finestre sulla realtà, che tutto il mondo è paese e "tirare a campare".
E' andata sempre così. Dalle croniche emergenze all'ordinaria vita civile.

sabato 2 agosto 2008

Ricominciamo?



Quando è cominciato il declino di Napoli? Giuseppe Montesano, nel prologo a "Due celebri delitti" - una recentissima (ri)edizione di due racconti (Giovanna di Napoli e Nisida) scritti da Dumas e ambientati a Napoli -, si interroga sull'eterno dilemma, senza pervenire ad una compiuta risposta.
Per lungo tempo non ho scritto post. Mi sono arrovellato, quasi paralizzato dall'impossibilità di continuare a "costruire" parole, senza riuscire a trovare una via d'uscita o, quanto meno, garantire un apporto costruttivo - per me, persona concreta per natura e professione, condizione imprescindibile-.
E intanto vedevo nuovamente crescere l'enfasi contraddittoria che da sempre caratterizza la nostra storia.
Contraddizioni che stridono da sempre nella quotidianità, come questa recente immagine di Piazza Banchi Nuovi (centro storico, a due passi da Università Orientale, S. Chiara e Gesù nuovo), dove il logo della II municipalità - sintesi inerte dell'inutile decentramento amministrativo - sovrasta il quotidiano cumulo di immondizia (Berlusconi avvisato: a dispetto dei suoi spot, la crisi è endemica e lungi dall'essere superata) in un tripudio di degrado capace di far trasecolare l'UNESCO che, indegnamente, anni fa (sulla scia dell'adagio bassoliniano "città d'arte" e "museo all'aria aperta") ha voluto inserire il centro storico di Napoli nella lista del Patrimonio dell'Umanità.

mercoledì 2 luglio 2008

Ricominciamo da qui.

Napoli, 2 luglio 2008. Piazza Plebiscito: simbolo di questa città immutabile, nel bene e nel male.

Due orchestre sinfoniche e due cori, uniti dalla prestigiosa bacchetta di Zubin Mehta.

Un evento senza pari nel passato, questa Nona di Beethoven.

“Fate presto”, titolava a nove colonne il Mattino del 24 novembre 1980, storicamente eternato in una provocatoria (e dimenticata) opera di Andy Warhol. “Fare qualcosa per una Napoli culla di cultura e di una straordinaria civiltà musicale, oggi mortificata e oltraggiata” dice oggi il grande Zubin Mehta, che rinuncia al suo cachet (quasi un monito ai nostri politicanti locali, spesso pronti ad accapigliarsi per un incarico, una poltrona o, peggio, un gettone) per dirigere quella che definisce “sigla ideale per una rinascita”.

Raccogliamo l’auspicio del Maestro. Vorremmo che fosse così. Dobbiamo e vogliamo crederci. A condizione di recuperare la nostra dignità di cittadini.

Avrete notato la mia assenza, da un po’ di tempo, dal blog e da varie occasioni di dibattito pubblico. E’ una provocazione in un momento in cui il ciclico dibattito polemico sulla città e sulle sue “magnifiche sorti” sta dando segno di stabile cronicizzazione, il tutto ad alimentare solo parole in un momento in cui dovrebbe prevalere finalmente il senso di un civico fare, espressione dell’essere-comunità.

Lasciamo, almeno oggi, parlare il linguaggio universale ed eterno della musica.

mercoledì 30 aprile 2008

Il re è nudo! Ovvero: se non diventerete come bambini.

Un re vanitoso, dedito alla perenne cura del suo aspetto esteriore e del suo abbigliamento.

Degli imbonitori che, sotto le mentite spoglie di abili tessitori, convincendolo delle loro straordinarie capacità, pontificano le qualità del formidabile tessuto che essi soli intessono, sottile, leggero e incomparabile, con la peculiarità di risultare invisibile agli stolti e agli indegni.

Uno stuolo di cortigiani che, pur non riuscendo a vedere il “formidabile” ordito, lodano la magnificenza del tessuto del sovrano.

Il re, che, pur rendendosi conto di non essere neppure lui in grado di vedere alcunché (così come i cortigiani menzogneri), si mostra estasiato per il lavoro dei tessitori, al punto da sfilare col suo “nuovo vestito” per le vie della città tra nugoli di folla paludente che loda a gran voce l'eleganza del sovrano.

Un incantesimo che si spezza, quando, nella sua disarmante semplicità, un bimbo grida: “Il re è nudo!”.

Non occorre aggiungere altro. La notissima fiaba parla da sé.
Il re è nudo. Lo sapevamo? Lo abbiamo detto? Abbiamo avuto il coraggio di gridarlo? Oppure lo abbiamo fatto, ma non siamo stati ascoltati?
Sono stati giorni di repentini cambiamenti, in cui la realtà ha superato l’immaginazione, o, meglio le aspettative – tranne che per chi si era accorto, da tempo, che effettivamente il re era nudo e lo aveva detto – .
Analisi su analisi, l’unica verità è costituita dall’incapacità di leggere la realtà e mettersi in discussione, specialmente dopo i molteplici segnali.

E di recente non sono mancati i paradossi sintetizzabili in commenti – avulsi dalla realtà– che parlavano di improbabili di vittorie locali del PD (cito una tra tutte: “In Campania il PD è cresciuto”), pur di non avviare un reale percorso costituente, volto a ridiscutere metodi, mezzi, strumenti, persone e processi di inclusione democratica, che consentissero (ma aggiungo: consentano) concretamente di dare corpo e forma ad un progetto che, in potenza, si dimostra innovativo e realmente in grado di imprimere un importante corso politico.

Abbiamo fugacemente riflettuto, senza la pretesa di compiere un’analisi esaustiva, sul dato elettorale. Ora, dopo Roma, l’ennesima conferma.

L’incapacità di interpretare i segnali che provengono dal basso, ha fatto il resto. Una incolmabile frattura che attende di essere colmata. Dialogo biunivoco, attitudine a far tesoro anche delle ragioni dei dissensi interni, e partecipazione «orizzontale» sono passaggi imprescindibili. Democrazia partecipata e di «prossimità» gli obiettivi.

Si apre una nuova fase di riflessione.

Questo post si inserisce tra due importanti date: il 25 aprile, anniversario della Liberazione, e il Primo maggio, festa dei lavoratori.

Alla nostra Costituzione, nel suo sessantesimo anniversario, ai suoi Valori fondanti, che poggiano su quel moto di orgoglio che unì l’Italia tutta e in particolare Napoli, medaglia d’oro della Resistenza, - città oggi purtroppo vittima della sua stessa disillusione -, dobbiamo ancora una volta, oggi, guardare.

martedì 15 aprile 2008

E' morto il re. Viva il re!


Nel sessantesimo anniversario della nostra Carta costituzionale un terremoto geopolitico sconvolge i tradizionali assetti della rappresentanza parlamentare.

Un processo di semplificazione netta indotto da un sistema elettorale che, con le sue soglie di sbarramento, non lasciava scampo.

Al di là del risultato, sicuramente ne esce vincente l’intuizione di Walter Veltroni e la sua scelta di lanciare, da solo, il Partito Democratico verso una nuova stagione del Paese. Idea che ha sbaragliato l’avversario, indotto a fare – in parte – altrettanto con una “coalizione” simil–partito, salvo – quest’ultimo – travolgere a sua volta il primo in termini elettorali e conquistare la maggioranza (ma questo è un discorso a parte).

Tuttavia va anche riflettuto sul significato (e sugli effetti) dell’estromissione, dal Parlamento, di storiche esperienze politiche (socialisti e sinistra radicale), espressione di valori identitari forti (anche per tradizione), oltre che di una significativa fetta di elettorato rimasta priva di rappresentanti.

Riflessione, questa, che si fa più pregnante se solo si considera che alla nuova fase costituente parteciperanno auspicabilmente (al bando ogni riforma delle istituzioni a colpi di maggioranza) due soli grandi partiti, oltre ad un movimento a fortissima connotazione localistica (e al suo relativo micro-clone), mentre alla stesura della nostra sessantennale (ma sempre nuova nei valori) Costituzione presero parte tutte le espressioni politiche del Paese. Non senza dimenticare che i maldestri tentativi di modificare unilateralmente i sapienti equilibri di pesi e contrappesi dei nostri padri costituenti sono prima o poi destinati a fallire, come ammonisce il maturo risultato del referendum costituzionale con il quale il popolo italiano – dimostrando alta sensibilità istituzionale - bocciò il pessimo disegno di legge partorito dai “saggi” del centrodestra tra il 2004 e il 2005. E di tale volontà popolare non potrà non tenersi conto nel ridisegnare l’assetto complessivo dello Stato, salvo dare sprezzante prova di un atteggiamento di aperta rottura nei confronti della prassi costituzionale.

Il cammino da compiere, in definitiva, è ancora lungo e bisognerà attendersi degli assestamenti che pongano in atto nuovi processi inclusivi attraverso meccanismi compensativi.

Al tempo stesso è il momento di ripartire dal basso e riscoprire il sempre più senso di una democrazia che nasce dalla gente e si alimenta di dialogo e discussione, facendo tesoro di quanto l’esercizio dialettico mette in luce giorno per giorno.

giovedì 10 aprile 2008

My deliberative democracy

Lasciata alle spalle la crisi di rappresentatività indotta da un sistema politico bloccato ed autoreferenziale, il nuovo traguardo è rappresentato dall’evoluzione verso una democrazia deliberativa.
Avendo ben presente, mutuandola dalla lingua inglese, la doppia radice semantica dell’aggettivo «deliberativo» (deliberative), inteso al tempo stesso come espressione sinonimo di «decisione», ma anche di «discussione».
Mi piace, allora, pensare ad una «democrazia di prossimità», dove la partecipazione dal basso diviene essenza stessa della politica, aspirando ad un rapporto osmotico governanti – governati nell'ambito di processi inclusivi.
In un momento storico in cui la contumelia dell’attacco alle Istituzioni – espressione dei valori costituzionali in cui noi tutti dobbiamo riconoscerci - è eretta a stile di vita e costituisce l’indice sistematico di una insofferenza verso tutto ciò che ci unisce nel bene come «cittadini», e dove la demagogica fuga dalle responsabilità (compreso il disinteresse per la cosa comune e la tentazione di astenersi in occasione delle competizioni elettorali) diviene la strada più facile da percorrere da parte di persone comprensibilmente deluse, ritengo più che mai necessario un moto di orgoglio da parte di ciascuno.
La democrazia cammina sulle nostre gambe. Non fermiamoci.

mercoledì 27 febbraio 2008

Cercasi un fine. Ovvero: al voto, al voto!


«Cercasi un fine.

Bisogna che sia onesto. Grande.

Il fine giusto è dedicarsi al prossimo.

E in questo secolo come vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola?

Siamo sovrani. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte.

Ma questo è solo il fine ultimo da ricordare ogni tanto.

Quello immediato da ricordare minuto per minuto è d’intendere gli altri e farsi intendere».

Così tuonava Lorenzo Milani circa quarant’anni fa.

Veniamo ai nostri giorni: al voto, al voto! E un referendum nel cassetto. Una coraggiosa e rivoluzionaria scelta di semplificazione – quella di “Uolter” – che pare mettere in crisi meccanismi consolidati. Ora alla prova del nove: la formazione delle liste. Vecchi privilegi, successioni dinastiche e modalità di cooptazione duri a morire. Eppure sarebbe così semplice se il fine fosse sempre uno solo, quello del "servizio" alla collettività. Perché in questo caso – al bando la brama del cursus honorum (molto in voga soprattutto dalle nostre parti) – il motore sarebbe quello del percorso condiviso tra chi è chiamato a farsi rappresentante e chi rappresentato.

Compiuti i tradizionali riti della politica, è arrivato, ancora una volta, il tempo delle scelte.

Invertiamo l’ordine e la dinamica del discorso. L’espressione "tempo delle scelte", così estrapolata rievocherebbe un discorso da "unti del Signore", che, sotto minaccia di chi sa quali sciagure, incitano alle scelte "giuste" – quelle, cioè, che si riconducono «solo» alla «loro» ricetta (calata dall’alto) –.

Il riferimento alla «sovranità», però, ristabilisce gli equilibri: il processo decisionale si muove dal basso verso l’alto, e non viceversa.

Dunque, basta elemosine. Riscopriamo il senso di "sovranità". Rivendichiamo un ruolo attivo, il "nostro" inalienabile diritto a "concorrere" personalmente con metodo democratico alla vita del paese. Non consentiamo «espropri».

Il rinnovamento nasce da noi. Perché come abbiamo già ricordato: "Tocchi in un punto e…".

martedì 22 gennaio 2008

Tanto tuonò che piovve

Joseph Beuys - Terremoto in palazzo
Installazione permanente Terrae Motus - Reggia di Caserta


Paul Ginsborg nel suo saggio La democrazia che non c’è, al termine di un immaginario incontro tra Karl Marx e John Stuart Mill avvenuto nel 1873, individua un punto di contatto tra i due pensatori: «l’ammissione di tutti ad aver parte del potere sovrano dello stato», ovvero la necessità che uomini e donne siano «soggetti attivi» in politica come nel sociale.


Secca la constatazione finale: «Nessuno di questi obiettivi è stato realizzato». Non meno accattivante il filo conduttore, intessuto dalla riscontrata necessità di individuare forme e prassi che combinino la democrazia rappresentativa con quella partecipativa, «al fine di migliorare la qualità della prima tramite il contributo della seconda».
Quell’unico filo che passa anche attraverso le trame di un terremoto che ha scosso il palazzo appena qualche giorno fa.

Non credo si sia abbastanza riflettuto: nel fatidico 16 gennaio 2008, che ha visto repentinamente assurgere ai ranghi della cronaca giudiziaria il paradigma di quello che ormai sembrava un consolidato apparato di potere – destinato ad avere lunga vita -, la Corte Costituzionale ha dato il «via libera» ai referendum elettorali.

Senza volere entrare nel merito dell’inchiesta che ha travolto un intero partito (ma che, nei suoi contenuti, mette sotto accusa un discutibile modo – purtroppo diffuso - di intendere la politica), né analizzare in concreto gli effetti del referendum abrogativo, la reductio ad unitatem è doverosa: la negazione della politica – che fonda la sua perversa sintesi nel perseguimento spasmodico dell’interesse di pochi a danno dei molti – trova il suo contraltare in un’affermazione di democrazia partecipativa, che mira a scardinare gli effetti distorsivi di un partitismo famelico che, nella gestione autoreferenziale del potere e della cosa pubblica, pare avere dimenticato il senso dell’art. 49 della Costituzione (che riconosce a «Tutti i cittadini» il diritto di concorrere alla vita democratica del paese).

Se l’apparato di Palazzo (senza distinzione di schieramento) ha inteso abdicare ai valori fondanti della democrazia, che, messo al bando l’interesse dei pochi, dovrebbero interpretare la politica come impegno e tensione civile, ciò non vuol dire che occorre gettare la spugna. Così come, alle cicliche accuse rivolte con vittimismo alla Magistratura (unico baluardo che continua a dar prova di essere soggetto solo alla Legge), è pur sempre agevole replicare che, al di là delle presunte responsabilità penali da accertare, il «buon andamento» e l’«imparzialità dell’amministrazione», innegabilmente messi a dura prova dallo status quo, a Costituzione immutata, continuano a costituire principi fondamentali (art. 97 Cost.) che dovrebbero informare non solo l’azione amministrativa in astratto, ma l’attività di chiunque sia chiamato, anche in via elettiva, a ricoprire incarichi pubblici.

Scriveva Mill (Considerazioni sul governo rappresentativo, 1861) che il popolo deve possedere il potere di controllo ultimo, nella sua pienezza; deve cioè essere «padrone a suo piacimento, di tutte le funzioni di governo».


Quotidianamente assistiamo ad una «espropriazione» di fatto dei meccanismi di partecipazione democratica ad opera delle «botteghe» di partito e dei loro conventicoli.


E il perverso meccanismo elettorale tenacemente voluto dalla precedente maggioranza – ma non adeguatamente avversato dalla presente – rappresenta la summa di un tale modo di sentire.


In queste ore non riusciamo a prevedere le sorti della XV legislatura. Non si può però fare a meno di osservare come lo «spauracchio» referendario (ma soprattutto la vis sottesa) abbia chiamato a raccolta, da destra a manca, i sostenitori della riforma elettorale dell’ultim’ora.


Da addetto ai lavori non posso che scuotere la testa quando sento i politici di turno convinti che una modifica sic et simpliciter della legge elettorale, quale che sia, sarebbe in grado di allontanare lo spettro del referendum. Mi accorgo come sia corta la memoria (ma probabilmente vuota), visto che i personaggi in questione ignorano che, come statuito in via additiva dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza 17 maggio 1978 n. 68 (in tema di illegittimità dell’art. 39 della L. 352/79), occorre in ogni caso indagare sull’«intenzione del legislatore». Laddove questa rimanga sostanzialmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio, «la corrispondente richiesta [di referendum] non può essere bloccata», perché, come ricorda la Consulta, «diversamente la sovranità del popolo (attivata da quella iniziativa) verrebbe ridotta ad una mera apparenza». Non occorre spingersi oltre, non è questa la sede.


L’effettività della sovranità è un bene troppo prezioso per essere delegato. Tanto più perché venga «espropriato» in via definitiva.

martedì 8 gennaio 2008

Io so


Non è il caso di scomodare Calvino e, da "Le città invisibili" (come abbiamo già fatto in un precedente, quasi profetico, post), l'immaginifico archetipo di Leonia, la cui arte eccelle nel fabbricare nuovi materiali e nel migliorare la sostanza della sua, che resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. Sarebbe fin troppo scontato.

Quella Leonia, che più espelle roba, più ne accumula, conservando tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d'ieri che si ammucchiano sulle spazzature dell'altro ieri.
Pianura anno zero.

Ripartiamo da dove siamo partiti. Dodici anni fa.

Il paradigma della sconfitta di una battaglia mai intrapresa. A tutto vantaggio di quanti hanno sguazzato nell'emergenza.

Camorristi, politicanti, avventurieri della pubblica prebenda, pseudoconsulenti, dissipatori di ricchezza pubblica.

Aria di disfatta. Quale che sia il destino che attende le "discariche in pectore", con l'interrogativo sempre aperto di misteri irrisolti (ad esempio, termovalorizzatori a parte - caduti vittime dei noti e comprensibili ritardi - , qualcuno ci spieghi perché, dopo avere sperimentato tutti i colori dell'arcobaleno in sacchetti , a Napoli la differenziata non può essere realtà e siamo tornati alle "campane").

E' la parabola di una storia, iniziata quindici anni fa, e che oggi vede sconfitti tutti noi cittadini.

Abbiamo creduto nella possibilità di una riappropriazione democratica delle istituzioni e della nostra vita civile.

E invece no. Perennemente estromessi da ogni momento decisionale e di partecipazione civile. A tutto favore di quanti, in questi anni, tronfi del loro cortigiano vagare sono stati beneficati, nell'assoluto trionfo dell'improvvisazione, del dilettantismo e della incapacità.

E ora ci provino il contrario.

Chi è responsabile? Quali i nomi? A chi dunque compete fare questi nomi?

Con Pasolini: "Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere".

Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.

Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.

Ancora Pasolini: "Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.

Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.

Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici".
Si è parlato di disfattismo e di atteggiamento rinunciatario.
Mi pare, viceversa, che debbano fare mea culpa tutti coloro che hanno attaccato stizziti le voci critiche che si levavano a evidenziare le criticità del sistema e la necessità di ristabilire un dialogo caduto vittima dell'autoreferenzialità; tutti gli artefici, nessuno escluso, della frattura tra società e classe politica.
Per quello che mi riguarda, non posso che sentirmi profondamente deluso.

Per ogni volta in cui la voce "scomoda" nelle stanze del potere è stata salutata con malcelata insofferenza.

Per ogni volta in cui alla onestà intellettuale è stato preferito l'opportunismo palatino, precludendo ai più la partecipazione alla vita della cosa pubblica, senza ricordare che non è "cosa loro", ma "di tutti" - ricordandoci che, qui da noi, non è il caso di mettere in pratica il motto della scuola di Barbiana, "I care". Dobbiamo farci i "fatti nostri". Loro stanno nel palazzo. Noi sudditi.
Per ogni volta in cui, in quanto cittadini, ci è stato impedito di esercitare i nostri diritti e di mettere i talenti di ciascuno a disposizione della collettività, perché c'era sempre l'ennesimo "esperto" di turno che ormai, secondo uno schema consolidato di apparato, era pronto a fare la sua parte e, bontà sua, sollevarci dall'ingrato compito.

In una terra in cui anche il diritto elementare diviene eccezionale non ci sono più alibi. Finalmente.

sabato 22 dicembre 2007

Autocoscienza e responsabilità

Criminalità. Malaffare. Crisi ambientale.
Niente di nuovo sotto il cielo. E sotto l'albero.
Cosa augurarci allora in vista delle prossime festività?
Scriveva Dostoevskji, per bocca di un suo personaggio (il monaco russo Starets Zosima), in alcune pagine che ritengo non possano lasciare indifferenti per l'intrinseca religiosità (in senso lato, anche laico):
" Pare un non senso, ma è giusto, perché tutto, come l'oceano, scorre e comunica, tu tocchi in un punto e si ripercuote all'altro estremo del mondo.
Sarà follia domandar perdono agli uccelli, ma gli uccelli e i bambini e ogni animale intorno a te si sentirebbero meglio se tu stesso fossi più nobile di quel che ora sei, non fosse che un tantino. Tutto, vi dico, è come l'oceano. [...]
E non vi turbi nell'opera vostra il peccato, non temete che esso sciupi l'opera vostra e le impedisca di compiersi e non dite: 'Forte è il peccato, forte l'empietà, forte il cattivo ambiente, mentre noi siamo soli e deboli; l'ambiente cattivo ci guasterà e non lascerà che l'opera buona si compia'. Figli miei, non lasciatevi così abbattere! Non c'è che un mezzo di salvezza: renderti responsabile di ogni peccato umano..."
E' vero. L'assenza di risposte scoraggia. E il ciclico ripetersi di una storia già vista svilisce ogni volontà di riscatto. E con essa di impegno.
Ma l'augurio è duplice
Innanzi tutto manteniamo inalterata la nostra coscienza critica. Non smettiamo di indignarci. E di lottare in nome di un impegno civile che possa essere davvero inesauribile.
In secondo luogo: autoresponsabilità. Non ha senso, anche demagogicamente, elencare i mali che ci affliggono circondandoci, senza muovere un dito per migliorare noi stessi.
Tutto è come un oceano.
Auguri!

Municipalità, "mini"assessori e "aperture" della politica

Vi racconto un episodio che ben costituisce l'archetipo dell'attuale dimensione dell'agire politico.
Una municipalità.
Una stanza.
Quella del Presidente.
Una porta. Aperta.
Passando per caso il mio sguardo cade all'interno e lo sguardo si incrocia con quello di un "mini"assessore che conosco.
Il mio slancio, naturale, è immediatamente volto al saluto cordiale.
Raggelato mi accorgo che la priorità del MINI assessore, pur avendomi riconosciuto (ma il discorso potrebbe valere per qualsiasi cittadino, anche da lui non conosciuto), non è minimamente quella del saluto (che almeno la buona educazione gli avrebbe imposto, stante la comune conoscenza), ma la repentina e violenta chiusura della porta in faccia accompagnata da una furfugliata scusa (quella di confabulare con altri "politici" presenti dei "fatti loro" escludendo il mondo intorno).
Ritengo che il personaggio in questione, la cui principale preoccupazione non è stata quella di andare verso gli altri, ma di rinchiudersi nel conventicolo a cui sono avvezzi gli attuali politici ad ogni livello, abbia ben interpretato il ruolo attuale del politico e dei gruppuscoli (non certo dei cittadini) che è chiamato a rappresentare attuando pienamente la conventio ad escludendum che è il loro pezzo forte.
La strada da percorrere è tanta.

martedì 30 ottobre 2007

"Ri"organizzare la speranza



"Organizzare la speranza": l'eredità di Giovanni Paolo II lasciata dopo la sua lunga (ben tre giorni) visita pastorale del 1990.
Una frase divenuta storica.
E chi di noi dimentica gli striscioni, carichi di disperazione e speranza, branditi dalle vele di Scampia?
Non meno difficile di oggi il periodo che la città attraversava allora, attanagliata nei suoi problemi di sempre.
Che cosa resta del messaggio di speranza di Giovanni Paolo II? E' possibile "ri"organizzare la speranza di Giovanni Paolo II? Voglio credere ancora di sì. A condizione che venga consentito a tutti di partecipare.
Fin tropo la nuova classe politica si è arroccata nelle sue stanze, sorda alle mille energie del territorio. E' per questo che avrebbe fatto bene a "uscire dai palazzi", come veva esortato il cardinale Sepe, invece di insuperbirsi per il monito e rimbrottare come sempre ha fatto nei confronti di chi ha levato, anche solo timidamente, delle voci critiche.
Il governo della città non è un fatto privato, ma condiviso. E di condivisione del percorso non c'è proprio nulla.

lunedì 29 ottobre 2007

La governance dell'informazione

Le strade grondanti di sangue e una città in balia della criminalità alla ribalta delle cronache. C'era bisogno di una iniezione di fiducia, in grado di innescare un circolo virtuoso sull'immagine della nostra martoriata metropoli, e a più voci si incominciò a invocare l'opportunità di promuovere dei grandi eventi che fungessero da catalizzatore di attenzione a livello nazionale e internazionale, così come avvenne nel lontano 1994 per il G7.
Finalmente l'annuncio nell'aprile 2007 del Ministro Rutelli: Napoli avrebbe avuto "un evento" per ben tre anni di seguito, divenendo "palcoscenico" del Teatro Festival Italia.e di nuovo
Non è passato molto tempo che, al festoso annuncio, con la mente allo storico evento di Assisi del 1986, si è aggiunta la conferma della presenza di Papa Ratzinger all'incontro internazionale delle religioni per la Pace, in programma appena una settimana dopo il Teatro Festival. Qualcuno, con non poca enfasi autocelebrativa, ha incominciato a parlare di "spirito di Napoli" (sulla scia della frase coniata in occasione della giornata di Assisi).
Un doppio evento di grande rilievo, che avrebbe dovuto moltiplicare l'attenzione positiva dei media nazionali e internazionali su Napoli.
Niente di tutto ciò.
Entrambi gli eventi sono stati relegati, dai mezzi di comunicazione, a vicende locali.
Sfido chiunque a recuperare sui media nazionali e internazionali, soprattutto per ciò che riguarda il prossimo incontro per la Pace (del quale addirittura la maggioranza dei napoletani ignora l'imminente celebrazione), compiute notizie in merito sulle prime pagine.
Nessuna notizia nelle cronache, almeno nazionali (non dico internazionali), del Teatro Festival Italia, mentre stiamo assistendo in questi giorni ad un vero e proprio tam tam sul festival del cinema romano. Di contro le prime pagine non lesinavano spazio alle sempiterne e tragiche vicende di sangue.
Senza arrendersi ad un atteggiamento piagnone (che per quanto mi riguarda non appartiene alla storia personale del sottoscritto - pronto a valutare acriticamente e con distacco i limiti del sistema partenopeo -), credo sia arrivato il momento di riflettere seriamente sulla governance dell'informazione: sia sull'incapacità della città di fare pensare in positivo di sé al suo esterno (a livello nazionale e internazionale) - uscendo da un lento processo di inesorabile provincializzazione -, sia sulla inidoneità dei flussi di informazione positivi (o meglio delle modalità in cui essi vengono offerti ai media) a prevalere (senza offrire ovviamente una visione distorta della realtà) su quelli perennemente di segno opposto, o quanto meno, a equilibrare un quadro che, agli occhi, dell'osservatore esterno appare definitivamente compromesso.
E' un aspetto sottovalutato, perché periodicamente ci si limita - da parte dei governanti locali -, a invocare, di fronte a evidenti situazioni di crisi, la tesi del "complotto" antinapoletano, ma poi si affossa la città nel pozzo senza fondo del suo provincialismo.
E allora qualsiasi evento "calato dall'alto" finirà con il diventare uno spreco di risorse umane ed economiche, utile solamente ad alleviare le "piaghe" del malato locale e a offrire un contentino di orgoglio ad un popolo che si avvia ad essere spogliato della sua dignità.

mercoledì 17 ottobre 2007

Eccellenza e le eccellenze

Joseph Beuys, Terremoto in palazzo, 1981
(dalla installazione permanente Terrae motus, Reggia di Caserta)









Tre milioni e mezzo di cittadini in fila ai seggi per le primarie. Tra loro anche molti di quelli presenti qualche settimana fa al V-Day e tacciati di "antipolitica". Un significativo segno di democrazia, sospinto dall'entusiasmo della partecipazione diretta ad una nuova pagina della storia politica. Sintomo evidente che la politica non è morta, ma che quelli che dovrebbero essere i suoi veri protagonisti, ovvero i membri della civitas, e non i "politici" acchiappapoltrone, desiderano sentirsi protagonisti del cambiamento.


Ma quanto, nella realtà, attua gli alti fini che li ha tirati giù dal letto in una domenica di un primaverile autunno?


Le candidature: non può dirsi che a cittadini e società civile sia stato riservato un posto privilegiato. Anzi, i seggi delle liste forti sono stati riservati alle liste dei notabili poltitici, che hanno ingaggiato una corsa al seggio. Nessun volto nuovo nell'Assemblea nazionale. I risultati parlano da sé. Conseguenza: la tensione partecipativa è frustrata ab initio. Insomma, invece di cercare di costruire l'eccellenza si sono privilegiate le "eccellenze".


Nessun terremoto in palazzo, dunque, per parafrasare il titolo di uno dei più noti artisti contemporanei, Joseph Beuys.


Un sogno, quello della partecipazione democratica, per ora nel cassetto; ma un segno per i politici autoreferenziali chiusisi a riccio nella stanza dei bottoni: è bene mettere immediatamente mano a nuove dinamiche che consentano al popolo delle primarie di partecipare realmente. Diversamente il partito sarà il loro vuoto contenitore.




giovedì 27 settembre 2007

Quantità e qualità politica

"Si potrebbe servirsi metaforicamente di questa legge per comprendere come un 'movimento' o tendenza di opinioni, diventa partito, cioè forza politica efficiente dal punto di vista dell'esercizio del potere governativo; nella misura appunto in cui possiede (ha elaborato al suo interno) dirigenti di vario grado e nella misura in cui essi dirigenti hanno acquisito determinate capacità. (..) Perciò si può dire che i partiti hanno il compito di elaborare dirigenti capaci, sono la funzione di massa che seleziona, sviluppa, moltiplica i dirigenti necessari perché un gruppo sociale definito (che è una quantità 'fissa', in quanto si può stabilire quanti sono i componenti di ogni gruppo sociale) si articoli e da caos tumultuoso diventi esercito politico organicamente predisposto." [A. Gramsci, Q.13]

Abbiamo assodato che non si può parlare di antipolitica e che, semmai, una tale locuzione è figlia della politica “ufficiale”, di “palazzo”. Ogni espressione di pensiero tesa ad influire sulla vita della collettività e in vista di un fine comune è politica.

Ma come tendere ad un fine comune? Come divenire sintesi – non caotica – di nuove istanze e concorrere alla vita democratica del paese?

In questi giorni, a parte il fenomeno delle V-Day, le cronache sono occupate dalla corsa alle liste del costituendo Partito Democratico.

Una prima notazione: nel panorama della seconda repubblica e del post – tangentopoli ritorna la parola “Partito”, messa al bando da miriadi di nuove espressioni (“Alleanza”, “Unione”, “Lista”) che erano divenute archetipo di una volontà di esorcizzare in fretta un passato con il quale non si volevano fare i conti.

Ed è da qui che bisogna ripartire.

Non dimentichiamo che il ruolo dei “partiti” è costituzionalizzato e l’articolo 49 della nostra Carta fondamentale sancisce il diritto di “tutti i cittadini” ad associarsi liberamente, per l’appunto, in “partiti” per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

La nuova frontiera, però, deve essere rappresentata dalla possibilità, aperta a “tutti”, di concorrere, democraticamente, alla vita del paese. E con essa anche al divenire dei partiti. Diversamente, l’enstabilishment partitico (quello che oggi parla con disprezzo di “antipolitica”) avrà sempre di che lagnarsi, posto che vi sarà sempre qualcuno che, a ragione, rivendicherà il suo diritto di cittadinanza attiva.

Il distacco tra governanti e governati, l’incomunicabilità tra cittadini e rappresentanti istituzionali, giunta a livelli parossistici, è stata favorita, purtroppo, dalla creazione di blocchi di potere, vere e proprie “cricche” (per utilizzare una espressione icastica e utilizzata dallo stesso Gramsci), che sono divenute negazione dell’essere-politica, tradendo la stessa aspirazione del Costituente volta a tutelare il diritto di “tutti” i cittadini a partecipare con il proprio apporto concreto (questo di senso dell’ espressione “concorrere”) alla vita democratica.

Quindi, anche all’interno dei partiti si finisce con il contare in modo direttamente proporzionale al numero di voti. E non è il caso di soffermarsi su quale sia il reale prezzo del consenso elettorale, soprattutto in termini di clientelismo.

Il trionfo della quantità, a discapito della qualità.

E’ questo il rischio più grande, che finisce con il trasformarsi, da una parte, in perdita di rappresentatività, dall’altra in grave esclusione di una rilevante fetta del paese reale dalla possibilità di partecipare alla vita delle istituzioni, a tutto favore dei “portatori di voti” (questi sì “antipolitici” – in quanto negazione della dignità che dovrebbe caratterizzare l’impegno politico-).

In breve, essere votati non equivale ad essere veri politici. Ed è arrivato il momento di consentire ai cittadini, in quanto tali, di partecipare ai nuovi processi di trasformazione in atto.

La stessa corsa al seggio per le primarie (e con essa i metodi di cooptazione all’interno delle liste) rischia di dissimulare un sistema gattopardesco di autoconservazione, laddove non accompagnata a meccanismi compensativi che garantiscano la concreta partecipazione di tutti, senza distinzione alcuna, e di forze realmente nuove nei metodi e nell’approccio politico.

Se non sarà così, temo che il fuoco della cosiddetta “antipolitica” difficilmente si placherà.

giovedì 13 settembre 2007

Politica e antipolitica: due facce (fungibili) della stessa medaglia


l'agorà di Santiago Calatrava - Atene

Parole profetiche quelle del nostro precedente post.
In questi giorni c'è un gran parlare di politica e antipolitica. Gli "uni" (politici di professione al potere) bollano gli "altri" come espressione dell'"antipolitica". Le accuse di questi ultimi, ampiamente condivise - secondo le statistiche - dall'opinione pubblica, richiamano all'ordine i professionisti della politica che, senza distinzioni tra destra e sinistra, si
ritrovano "stranamente" concordi (una volta tanto).
Ma cos'è "politica" e cosa si definisce invece "antipolitica"? Quali sono i confini? Dove finisce l'una e inizia l'altra?
E' proprio giusto parlare di "anti"politica? O invece si tratta di due facce di una stessa medaglia? Etimologicamente il suffisso "anti" - dal greco antì - individua uno stato di contrapposizione ad uno stato di fatto; quindi, secondo l'accezione che stanno tentando di accreditare (mistificandone la portata), dovrebbe significare un rifiuto della dimensione politica. Esattamente il contrario di quanto la piazza rivendica.
A questo punto ognuno dei due blocchi, rivendicando per sé l'"essere-politica", potrebbe "bollare" l'altro di "antipolitica".
Fino a quando ci sarà una demonizzazione dell'avversario, o meglio una contrapposizione in blocchi, con categorizzazioni imposte dalla classe dominante, non si farà un passo avanti.
La politica parte dal basso e il nostro stesso agire è "politica". E' dunque errato parlare di antipolitica e, ancor di più, affibbiare tale odioso appellativo a chi dimostra in ogni caso di essere portatore di istanze.
E infine, dalle piazze, un monito per i "professionisti" della politica (fermo restando che la politica non è una professione): la partecipazione democratica alla cosa pubblica e alla vita del Paese è un diritto intangibile (oltre che costituzionalmente garantito). Non paga chiudersi in una lobby impermeabile all'esterno per curare il proprio orticello. Aprire quanto più è possibile agli altri e condividere l'esperienza sono aspetti da curare ogni giorno. E soprattuto una consapevolezza: il "consenso" è un dato effimero, destinato a dissolversi in un lampo. Men che non si dica.
Quindi incominciamo ad essere "Politica" insieme. Davvero.
A voi la parola.

martedì 7 agosto 2007

Per vivere dentro le cose da cambiare

"In conclusione vanno a far leggi nuove quelli cui vanno bene le leggi vecchie.
Gli unici che non son mai vissuti dentro alle cose da cambiare.
Gli unici che non son competenti di politica".
Non sono le parole di un demagogo.
Ancora Lorenzo Milani.
Ancora Lettere ad una professoressa.
Io, tu, noi, "insieme" siamo "politica". Ma l'impressione è che come cittadini ci impediscono di essere politica.
Sia chiaro che il nostro essere oggi qui non è il comitato per la stesura di un cahier de dolance da girare ai "politici" di turno. Noi stessi siamo "politica" e non solo ne dobbiamo prendere coscienza, ma soprattutto farla prendere a chi ci rappresenta. Essere legittimati come interlocutori. Partecipare attivamente alla formazione dei processi decisionali. Impedire di esserne esclusi. Far sì che si ricordino di noi e si mettano una mano sulla coscienza, perché fino ad ora l'autoconservazione e l'autosufficienza hanno solo dato manforte alla costituente del partito oligocratico.

martedì 31 luglio 2007

La costituente del partito oligocratico

Non c’è bisogno di convention o primarie. Il partito oligocratico è sempre tra noi.
La conventio ad excludendum è perennemente in agguato e costituisce lo strumento più forte per l’autoconservazione di una casta politica trasversale, che tralascia il contatto con i cittadini (cellula primigenia, anzi essenza stessa della politica), ritenendo, con presunzione, di essere il filtro di tutto ciò che riguarda la cosa pubblica.
Vi siete mai chiesti cosa mai si dicono i politici nei loro conventicoli privati? Non è forte la sensazione che avvenga qualcosa alle nostre spalle, a nostra insaputa e senza la nostra partecipazione?
Noi crediamo invece ad una dimensione partecipata della democrazia. E non vogliamo rinunciarvi: “uscire da soli dai problemi è egoismo, uscirne insieme è politica” ammonisce Don Milani in “Lettere ad una professoressa” e come più volte abbiamo ricordato.
E’ ancora possibile vivere la politica come partecipazione democratica? O dobbiamo rinunciarvi?
E’ ancora possibile pensare e tendere a cose alte?
Io spesso penso ai discorsi che si scambiavano i Padri costituenti. E li metto in contrasto con l’inconsistenza delle vuote parole dei “nostri” politici che, anche tra loro - nei corridoi del potere e alle cene degli “esclusi” - fanno a gara a rincorrere l’effimero di turno, per essere appagati da un irragiungibile primato.
E poi: possiamo accontentarci di essere solo spettatori?
Attendo una vostra risposta

mercoledì 11 luglio 2007

Napoli e la buona novella

(Andy Warhol - "Fate presto", 1981)

In questi giorni l’opinione pubblica è catalizzata, per l’ennesima volta, da sterili polemiche, ormai capaci di autoalimentarsi, che rischiano, in un perverso tam tam giornalistico, di fare ben più male a questa plurimartoriata città dei titoli – provocatori o, a volte, esageratamente allarmistici – che vi hanno dato inizio.
Penso all’allarme lanciato dall’ambasciata USA e ai relativi battibecchi con il Sindaco; ai dati CENSIS sulle presunte diminuzioni statistiche degli episodi di microriminalità; alle contestazioni sorte in merito alle dichiarazioni dell’Assessore Gambale che, nel corso del convegno organizzato da “L’altra Napoli”, invitava giustamente a non perdere di vista la pervasiva (e sotterranea) presenza della camorra nel tessuto vitale cittadino a favore di visioni parziali tutte orientate a soffermarsi sulla punta dell’iceberg costituita da scippi e rapine (espressione comunque di un sistema criminale unificato, come ci ha ricordato Saviano in Gomorra).
L’impressione generale è di una nuova corsa al massacro – deleteria nei suoi effetti – che sta sconvolgendo il panorama delle cronache, aggiungendo tinte fosche ad un quadro già disperato.
E’ invece sempre più forte l’esigenza di rimettere in moto un circolo virtuoso che consenta alle energie positive della città di emergere, fare mostra di sé e, soprattutto creare notizia in positivo.
Dall’altro, è innegabile prendere atto della necessità di coinvolgere il più ampio numero di cittadini – che in un simile contesto si sentono ormai demotivati a lottare - in una rinnovata tenzone all’affermazione dei principi di legalità e democrazia partecipata.
E’ da qui che bisogna ripartire, tenendo ben presente che, fin quando notizie e opinione pubblica risultano assorbite da polemiche fini a se stesse, l’unico a trarne giovamento è il sistema camorristico illegale, vivo e vegeto più che mai nei suoi multiformi aspetti.

giovedì 5 luglio 2007

Piccoli saggi crescono

Come sostiene Platone nella Repubblica, “A meno che i filosofi non regnino negli stati o coloro che oggi sono detti re e signori non facciano genuina e valida filosofia, e non riuniscano nella stessa persona la potenza politica e la filosofia, non ci può essere una tregua di mali per gli stati e nemmeno per il genere umano”.

In breve, l’auspicio per i mali del genere umano e della società è riposto nel governo dei “sapienti” o “saggi” che dir si voglia.

A leggere i titoli dei giornali che ci “narrano” l’epopea del sempre più nutrito gruppo di “saggi” (prima 40, poi 60 infine, ad oggi, 78), nel comitato provinciale del costituendo Partito democratico, c’è da dormire sonni tranquilli per il nostro futuro.

Ammesso che sia dato comprendere da chi discenda l’attribuzione di questo epiteto e quale esame debba superarsi per entrare in un novero così esclusivo (al punto da innescare una gara al “ripescaggio”) ed essere qualificati saggi.

Così come, senza scomodare Hegel, sarebbe interessante individuare i criteri utilizzati per discernere i veri appartenenti alla “società civile”, che sono davvero meritevoli (bontà loro) di una cooptazione in questa squadra.

Novità o istinto di autoconservazione?

lunedì 2 luglio 2007

Napoli, città visibile e Leonia, città invisibile

Da Le città invisibili di Calvino:
"La città di Leonia rifà se stessa tutti giorno: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall'involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi ascoltando le ultime filastrocche dall'ultimo modello d'apparechio.
Sui marciapiedi, avvilupati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia di ieri aspettano il carro dello spazzaturaio (...)
l'opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l'espellere, l'allontanare da sé, il mondarsi d'una ricorrente impurità (...)
Aggiungi che più l'arte di Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. E' una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne (...)
Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d'ieri che si ammucchiano sulle spazzature dell'altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri.
Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell'estremo crinale, immondezzai d'altre città, che anch'esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta".
Una città che espelle i suoi rifiuti e si monda delle sue impurità, rinnovandosi ogni giorno. Al tempo stesso immondizie che si accumulano le une alle altre e, nel loro sedimentarsi, ne mantengono inalterata la memoria. Una visione orrida, che dà il senso di un rinnovamento solamente apparente, di facciata, incurante di tutto ciò che la circonda (un immondezzaio enorme che sottrae terreno ad altri immondezzai).
Fare un parallelo con la nostra realtà quotidiana - sia pure all'incontrario (la nostra città non si rinnova e, ironia della sorte, non riesce più ad espellere i rifiuti...) - appare scontato e, a tratti, demagogico.
Ma la demagogia non fa parte dei nostri propositi. Piuttosto, appare significativo rilevare come l'assenza di rinnovamento, in momenti tanto difficili, affondi le radici nell'incapacità dei cittadini di sentirsi parte di una collettività. Il dramma di questa città è sintetizzabile nella incapacità di ampi strati di popolazione che si dimostrano incapaci di pensare "da cittadini". Non di rado avvezzi a dare la colpa di ciò che non va ad una astratta entità a sé estranea, senza rendersi conto che il cambiamento investe il proprio modo di partecipare attivamente alla vita collettiva - lottando per i diritti e combattendo ogni forma di illegalità -.
C'è poi la categoria di quelli che nascondono la testa sotto la sabbia, negano l'evidenza e fingono, per falso amor patrio, di non riconoscere i problemi, sminuendone la portata e alimentando la tesi che "tutto il mondo è paese". Altro atteggiamento errato. L'incapacità di prendere atto realisticamente delle difficoltà impedisce di migliorare e mettere in campo energie per voltare pagina.
Residua l'atteggiamento conservatore dell'autocelebrazione, del quale il nostro panorame è ormai saturo.
In fondo a tutto l'assuefazione passiva, indotta spesso dal senso di impotenza consolidato dalla constatazione che tutto ciclicamente si rinnova in negativo.
C'è solo una via d'uscita: non smettere mai di essere vigili e credere ad oltranza nell'affermazione dei diritti di cittadinanza.

giovedì 28 giugno 2007

Educazione alla cittadinanza e cultura partecipante

Prima di cominciare a riflettere sul processo di "normalizzazione" del nostro quotidiano, non dobbiamo dimenticare un punto di partenza fondamentale: dobbiamo educare ed educarci alla democrazia, per dare pieno compimento ai nostri diritti.
L'educazione alla democrazia deve costituire il primo obiettivo.
Dunque occorre riscoprire l'esercizio della pratica democratica.
L'unico modo per fare di un suddito un cittadito consiste nel lottare per l'attribuzione e l'attuazione di quei diritti che dagli autori di diritto pubblico sono definiti activae civitatis.
John Stuart Mill, nelle Considerazioni sulla democrazia rappresentativa, distingue i cittadini in attivi e passivi, precisando che in genere i governanti preferiscono i secondi, perché è tanto più facile tenere in pugno sudditi docili o indifferenti, ma la democrazia ha bisogno dei primi.
Se dovessero prevalere i cittadini passivi, conclude, i governanti farebbero ben volentieri dei loro sudditi un gregge di pecore volte unicamente a pascolare l'erba una accanto all'altra.
Zagrebelsky significativamente ricorda la distinzione tra la cultura da sudditi, orientata verso gli output del sistema (cioè verso i benefici che l'elettore spera di trarre dal sistema politico), e "cultura partecipante", cioè orientata verso gli input, che è propria degli elettori che si considerano potenzialmente impegnati nell'articolazione delle domande e nella formazione delle decisioni.
Non di rado, accanto al diffuso fenomeno dell'apatia politica dei cittadini (indifferenza per ciò che avviene intorno e chiusura individualistica nel proprio bozzolo), si assiste ad un senso di insofferenza del rappresentante - il quale è mosso dalla convinzione che, conferita la delega, possa ritenersi (politicamente) insindacabile dal cittadino, con il quale vige il principio dell'incomunicabilità -.
Dunque, l'azione si deve condurre su un duplice fronte: sensibilizzazione al bene comune di tutti i cittadini e dialogo permanente rappresentati - rappresentanti.
Per apatia politica si intende non già indifferenza del cittadino per l'attività istituzionale, ma assoluta mancanza di interesse attivo verso il bene comune. La "cultura partecipante" si esprime nell'impegno a rimuovere - secondo il proprio ruolo - tutto ciò che non va, a denunciare senza timori e a costruire.
Ha scritto qualcuno: non smettiamo di indignarci. E aggiungo: restiamo vigili.

mercoledì 27 giugno 2007

Il nostro logo

Delle onde che si intrecciano a formare una fitta trama.
Buongiorno Napoli è l'incontro plurale di più storie che si fanno una.
La stilizzazione richiama il Vesuvio e, al tempo stesso, la trama che si forma, oltre a simbolizzare l'agorà, assume l'aspetto di un sole rassicurante che irradia i suoi raggi.
Un azzurro intenso incute ottimismo e al tempo stesso richiama l'auspicata limpidezza (segno di legalità e armonia) dei nostri cieli (evidenzio il plurale), una limpidezza che vogliamo ristabilire con il nuovo giorno che nasce dalle nostre mani.