martedì 22 gennaio 2008

Tanto tuonò che piovve

Joseph Beuys - Terremoto in palazzo
Installazione permanente Terrae Motus - Reggia di Caserta


Paul Ginsborg nel suo saggio La democrazia che non c’è, al termine di un immaginario incontro tra Karl Marx e John Stuart Mill avvenuto nel 1873, individua un punto di contatto tra i due pensatori: «l’ammissione di tutti ad aver parte del potere sovrano dello stato», ovvero la necessità che uomini e donne siano «soggetti attivi» in politica come nel sociale.


Secca la constatazione finale: «Nessuno di questi obiettivi è stato realizzato». Non meno accattivante il filo conduttore, intessuto dalla riscontrata necessità di individuare forme e prassi che combinino la democrazia rappresentativa con quella partecipativa, «al fine di migliorare la qualità della prima tramite il contributo della seconda».
Quell’unico filo che passa anche attraverso le trame di un terremoto che ha scosso il palazzo appena qualche giorno fa.

Non credo si sia abbastanza riflettuto: nel fatidico 16 gennaio 2008, che ha visto repentinamente assurgere ai ranghi della cronaca giudiziaria il paradigma di quello che ormai sembrava un consolidato apparato di potere – destinato ad avere lunga vita -, la Corte Costituzionale ha dato il «via libera» ai referendum elettorali.

Senza volere entrare nel merito dell’inchiesta che ha travolto un intero partito (ma che, nei suoi contenuti, mette sotto accusa un discutibile modo – purtroppo diffuso - di intendere la politica), né analizzare in concreto gli effetti del referendum abrogativo, la reductio ad unitatem è doverosa: la negazione della politica – che fonda la sua perversa sintesi nel perseguimento spasmodico dell’interesse di pochi a danno dei molti – trova il suo contraltare in un’affermazione di democrazia partecipativa, che mira a scardinare gli effetti distorsivi di un partitismo famelico che, nella gestione autoreferenziale del potere e della cosa pubblica, pare avere dimenticato il senso dell’art. 49 della Costituzione (che riconosce a «Tutti i cittadini» il diritto di concorrere alla vita democratica del paese).

Se l’apparato di Palazzo (senza distinzione di schieramento) ha inteso abdicare ai valori fondanti della democrazia, che, messo al bando l’interesse dei pochi, dovrebbero interpretare la politica come impegno e tensione civile, ciò non vuol dire che occorre gettare la spugna. Così come, alle cicliche accuse rivolte con vittimismo alla Magistratura (unico baluardo che continua a dar prova di essere soggetto solo alla Legge), è pur sempre agevole replicare che, al di là delle presunte responsabilità penali da accertare, il «buon andamento» e l’«imparzialità dell’amministrazione», innegabilmente messi a dura prova dallo status quo, a Costituzione immutata, continuano a costituire principi fondamentali (art. 97 Cost.) che dovrebbero informare non solo l’azione amministrativa in astratto, ma l’attività di chiunque sia chiamato, anche in via elettiva, a ricoprire incarichi pubblici.

Scriveva Mill (Considerazioni sul governo rappresentativo, 1861) che il popolo deve possedere il potere di controllo ultimo, nella sua pienezza; deve cioè essere «padrone a suo piacimento, di tutte le funzioni di governo».


Quotidianamente assistiamo ad una «espropriazione» di fatto dei meccanismi di partecipazione democratica ad opera delle «botteghe» di partito e dei loro conventicoli.


E il perverso meccanismo elettorale tenacemente voluto dalla precedente maggioranza – ma non adeguatamente avversato dalla presente – rappresenta la summa di un tale modo di sentire.


In queste ore non riusciamo a prevedere le sorti della XV legislatura. Non si può però fare a meno di osservare come lo «spauracchio» referendario (ma soprattutto la vis sottesa) abbia chiamato a raccolta, da destra a manca, i sostenitori della riforma elettorale dell’ultim’ora.


Da addetto ai lavori non posso che scuotere la testa quando sento i politici di turno convinti che una modifica sic et simpliciter della legge elettorale, quale che sia, sarebbe in grado di allontanare lo spettro del referendum. Mi accorgo come sia corta la memoria (ma probabilmente vuota), visto che i personaggi in questione ignorano che, come statuito in via additiva dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza 17 maggio 1978 n. 68 (in tema di illegittimità dell’art. 39 della L. 352/79), occorre in ogni caso indagare sull’«intenzione del legislatore». Laddove questa rimanga sostanzialmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio, «la corrispondente richiesta [di referendum] non può essere bloccata», perché, come ricorda la Consulta, «diversamente la sovranità del popolo (attivata da quella iniziativa) verrebbe ridotta ad una mera apparenza». Non occorre spingersi oltre, non è questa la sede.


L’effettività della sovranità è un bene troppo prezioso per essere delegato. Tanto più perché venga «espropriato» in via definitiva.

10 commenti:

Anonimo ha detto...

E la quiete dopo la tempesta? Dove la mettiamo?

Anonimo ha detto...

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nei modi e nei limiti della Costituzione! (art. 1 Costituzione). Mastella impara. Tu, i tuoi accoliti, e imparino anche tutti i politicanti di turno. Di destra e di sinistra.

Anonimo ha detto...

democrazia, elezioni, popolo, sovranità ? provate piuttosto a confrontare le vicende odierne di why not con il caso moro di quasi trent'anni addietro...
Vi aiuto con due citazioni!
INTERVISTA A PANORAMA (anno2007)
GIORNALISTA: "Signor Scarpellini, il magistrato l’ha iscritta nel registro degli indagati per l’appartenenza a una specie di P2 sanmarinese e l’ha bollata come “consulente di Prodi”. Un collegamento scomodo per il premier…"
SCARPELLINI:"Io lavoro a San Marino e, da molti anni, ho un rapporto a livello personale con il presidente Prodi. Capisco il vostro interesse e i vostri sillogismi: la Repubblica del Monte Titano è una zona chiacchierata; Scarpellini lavora là ed è legato al presidente; conclusione: Scarpellini e Prodi fanno un giochetto poco chiaro. Voi fate il vostro mestiere…"

AUDIZIONE DI ROMANO PRODI PRESSO LA COMMISSIONE MORO (1981)

PRESIDENTE: Debbo richiamare la sua attenzione sul fatto che la Commissione assume le sue dichiarazioni in sede di testimonianza formale e sulle conseguenti responsabilità in cui ella può incorrere, anche in relazione al dovere della Commissione di comunicare all'Autorità giudiziaria eventuali dichiarazioni reticenti o false (...)
ROMANO PRODI: Ripeto quanto ho già scritto nella mia lettera. In un giorno di pioggia in campagna, con bambini e con le persone che penso vedrete successivamente, perchè sono tutte qui, si faceva il cosiddetto «gioco del piattino» (...) Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Naturalmente, nessuno ci ha badato; poi, in un atlante, abbiamo visto che esiste il paese di Gradoli. Abbiamo chiesto se qualcuno ne sapeva qualcosa e, visto che nessuno ne sapeva niente, ho ritenuto mio dovere, anche a costo di sembrare ridicolo, come mi sento in questo momento, di riferire la cosa (...)
CORALLO: Per farla sentire meno ridicolo, dato che questa sensazione è un po' comune a tutti ... Mi scusi, professore, vorrei dirle che la scrupolosità della Commissione parte da un'ipotesi che dobbiamo accertare essere inesistente, e cioè - non credo molto agli spiriti - se ci possa essere stato qualcuno capace di ispirarli (...) Chi partecipò attivamente al gioco? Voi eravate tanti, però un ditino sul piattino chi lo metteva?
ROMANO PRODI: A turno tutti: c'erano 5 bambini; era una cosa buffa. Non crediamo alla atmosfera degli spiriti e che ci fosse un medium. Io le dico: tutti; anch'io ho messo il dito nel piattino (...)
PRESIDENTE: Non c'era un direttore dei giochi?
ROMANO PRODI: No. Bisogna vedere come se ne sono impadroniti i giornali; come di una seduta medianica, che non so nemmeno cosa sia, ma era un gioco collettivo invece, come tutti facemmo in quel momento; l'ho imparato dopo.
LAPENTA: Chi lanciò l'idea di questo gioco?
ROMANO PRODI: All'inizio il padrone di casa; non so... All'inizio ero in disparte con i bambini e dopo il gioco mi ha incuriosito.
FLAMIGNI: Come venne fuori la specificazione «casa con cantina»?
ROMANO PRODI: Ne sono venute fuori diecimila di queste cose: è venuto fuori «cantina», «acqua». In questo momento non lo ricordo nemmeno; il gioco è andato avanti per ore (...) Ripeto che non ho preso sul serio queste cose e, evidentemente, se non ci fosse stato quel nome, non avrei nè raccontato nè detto la cosa perchè cerco di essere un uomo ragionevole, onestamente.
FLAMIGNI: Nella testimonianza che lei ha reso al giudice dice: «Fui io a comunicare al dottor Umberto Cavina, nonchè il giorno prima alla Digos di Bologna attraverso un collega universitario, la notizia concernente la località: Gradoli, in provincia di Viterbo. A tale indicazione, con l'aggiunta che poteva trattarsi di una casa...»
ROMANO PRODI: Guardi, non me lo ricordavo neanche per il poco peso che gli ho dato. Ne sono saltate fuori tante di queste cose! Tutti hanno detto che non conoscevano questo paese; questo era importante.
PRESIDENTE: La notizia era talmente importante che se l'avessero ben utilizzata, le cose probabilmente sarebbero cambiate.
ROMANO PRODI: Non ho mai creduto a queste cose ... sarà stato un caso.
COLOMBO: Tutte le persone parlavano di un paese...
ROMANO PRODI: Bolsena, Viterbo, Gradoli; si faceva la targa VT; i monti Volsini... ripeto, dopo si dava importanza perchè avevamo visto dove erano; con la carta geografica in mano, fa tutti i «ballottini» che vuole...
CORALLO: «Ballottini» sta per piccoli imbrogli.
ROMANO PRODI: Con la carta geografica davanti davanti, lei capisce non è più...Scusi l'espressione.
FLAMIGNI: Dopo la seduta spiritica...
ROMANO PRODI: No, era veramente un gioco.
FLAMIGNI: Non si può chiamare seduta spiritica.
ROMANO PRODI: Non me ne intendo; mi dicono che ci vuole un medium.
FLAMIGNI: Comunque il risultato, la conclusione è che almeno quando viene fuori la parola «Gradoli» le si attribuisce importanza perchè lo si comunica alla segreteria nazionale della Dc, al capo della Polizia; poi, si muove tutto l'apparato.
ROMANO PRODI: Quando l'ho comunicato a Cavina m'ha detto che ce ne sono state quarantamila di queste cose. Fino al momento del nome, non era stato molto importante; per scrupolo (...) lo comunichiamo (...)
FLAMIGNI: Lei venne appositamente a Roma per riferire a Cavina?
ROMANO PRODI: No, era un convegno...non ricordo su che cosa, e dovevo venire a Roma.
FLAMIGNI: E quanti giorni dopo il «giochetto»?
ROMANO PRODI: Due-tre, non ricordo (...)
FLAMIGNI: Chi interpretava le risposte del piattino?
ROMANO PRODI: Un po' tutti. Era semplice, vi erano le lettere, si mettevano in fila e si scrivevano.
FLAMIGNI: Bisognerebbe capire qual era esattamente lo svolgimento del gioco (...) quali erano le domande poste.
ROMANO PRODI: Le domande erano: dov'è? perchè? Moro è vivo o morto? Del resto, persone che hanno fatto altre volte il «piattino» sanno di che cosa si tratta e possono darle spiegazioni più esaurienti.
BOSCO: Chi erano le persone che l'avevano fatto altre volte?
ROMANO PRODI: II professor Clò, ad esempio, ed altri che risponderanno perchè sono tutti qui (...)
FLAMIGNI: (...) sarebbe importante quantificare quali furono le domande.
ROMANO PRODI: Questo non ha niente a che fare con la tecnica del gioco ed è evidente che me lo ricordi. Le domande erano: dov'è Moro? Come si chiama il paese, il posto in cui è? In quale provincia? E nell'acqua o nella terra? E' vivo o morto?
FLAMIGNI: Quali erano le risposte ad ognuna di queste domande?
ROMANO PRODI: Qui intervengono problemi tecnici sui quali potranno essere date spiegazioni più esaurienti delle mie; comunque, vi erano delle lettere su un foglio e il piattino, muovendosi, formava le parole e indicava sì o no.
FLAMIGNI: Che cosa succede: uno mette il dito su questo piattino?
ROMANO PRODI: No, tutti.
FLAMIGNI: Ad un certo momento parte un impulso per cui il piattino si sposta e va su una lettera?
ROMANO PRODI: Sì. Posso comunque dire che, dopo questa esperienza, ho trovato tanta gente che mi ha confessato di aver fatto la medesima cosa.
CORALLO: (...) Di solito, quando il piattino comincia a muoversi, la domanda che si fa è: chi è l'interlocutore, lo spirito con il quale ci si intrattiene.
ROMANO PRODI: Alla fine è accaduto anche questo, ma all'inizio no. C'è stato chi ha detto: interroghiamo Don Sturzo o La Pira, ma le prime risposte, in un primo momento, erano soltanto sì o no.
CORALLO: L'interlocutore era dunque ignoto.
ROMANO PRODI: All'inizio sì, poi vi furono anche interlocutori vari tra i quali, per quel che mi ricordo, Don Sturzo (...)
CORALLO: Si trattava dunque di un gioco in famiglia, tra amici. Un'ultima domanda professore: tra i partecipanti, vi era anche qualche esperto di criminologia?
ROMANO PRODI: No, assolutamente no (...) Tra i partecipanti alla seduta vi ero io, che sono un economista, il professor Gobbo, che ha la cattedra a Bologna di politica economica, il professor Clo, che ha l'incarico di economia applicata all'Università di Modena e che si interessa di energia, ma di petrolio, non di fluidi. Vi era anche suo fratello che è un biologo (non so di quale branca, anche se mi pare genetica) e vi era anche il professor Baldassarri che è economista, ha la cattedra di economia politica all'Università di Bologna. Tra le donne vi erano mia moglie, che fa l'economista, la moglie del professor Baldassarri, laureata in economia, ed altre che non so cosa facciano professionalmente.
SCIASCIA: Nella lettera che è stata mandata alla Commissione, firmata da tutti voi, si dice che la proposta di fare il gioco è partita dal professor Clo.
ROMANO PRODI: Perchè era il padrone di casa.
SCIASCIA: Nella lettera si aggiunge che tutti vi parteciparono a puro titolo di curiosità e di passatempo, che la seduta si svolse in un'atmosfera assolutamente ludica.
ROMANO PRODI: Vi erano cinque bambini al di sotto dei dieci anni!
SCIASCIA: Si dice anche che nessuno aveva predisposizione alcuna di tipo parapsicologico o, comunque, pratica di queste cose, ma una certa pratica di queste cose qualcuno doveva pur averla!
ROMANO PRODI: Certo, a livello di gioco, la tecnica era conosciuta; però pratica di queste cose direi che non vi fosse. Ripeto, a posteriori, mi sono reso conto che vi è gente che tutte le sere lo fa!
SCIASCIA: Tra i dodici, qualcuno aveva pratica di queste cose?
ROMANO PRODI: Intendiamoci sulla parola pratica, onorevole Sciascia. Se qualcuno lo aveva fatto altre volte voi lo potrete sapere chiedendo agli altri, ma nella nostra lettera abbiamo detto che non vi era nessuno che, con intensità, si dedicava a questo. naturalmente vi era qualcuno che, altre volte, l'aveva fatto.
SCIASCIA: Francamente, io non saprei farlo.
ROMANO PRODI: Anche io non sapevo farlo! Non ne avevo la minima idea e, infatti, mi sono incuriosito moltissimo.
SCIASCIA: La contraddizione che emerge è questa: se c'è una seduta di gente che crede negli spiriti o, comunque, nella possibilità che si verifichino fenomeni simili, se c'è una seduta di questo genere - ripeto - e ne viene fuori un certo risultato del quale ci si precipita ad informare la Polizia ed il Ministero dell'Interno lo posso capire benissimo, ma che si svolga tutto questo in un'atmosfera assolutamente ludica, presenti i bambini, per gioco, e che poi si informi di ciò la Polizia attraverso la mediazione di uno che non era stato presente al gioco, e se ne informi quindi il Ministero dell'Interno, a me sembra eccessivo e contraddittorio.
ROMANO PRODI: Ma è venuto fuori, onorevole, un nome che nessuno conosceva! Anche se ci siamo trovati in questa situazione ridicola, noi siamo esseri ragionevoli. Ci siamo chiesti tutti: Gradoli nessuno di voi sa se ci sia? Se soltanto qualcuno avesse detto di conoscere Gradoli, io mi sarei guardato bene dal dirlo. E' apparso un nome che nessuno conosceva, allora per ragionevolezza ho pensato di dirlo.
SCIASCIA: Direi per irragionevolezza.
ROMANO PRODI: La chiami come vuole. La motivazione reale è che con una parola sconosciuta, che poi trova riscontro nella carta geografica, a questo punto è apparso giusto per scrupolo...
SCIASCIA: Poteva far parte della insensatezza del gioco anche il nome Gradoli.
ROMANO PRODI: Però era scritto nella carta del Touring.
SCIASCIA: La signora Anselmi dice che seguirono dei numeri che poi risultarono corrispondere sia alla distanza di Gradoli paese da Viterbo sia al numero civico e all'interno di via Gradoli.
ROMANO PRODI: Questo proprio non mi sembra ... c'era sul giornale...
SCIASCIA: La signora dice di aver sentito questo dal dottor Cavina.
ROMANO PRODI: Onestamente io non.. Non avrei difficoltà a dirlo.
CORALLO: Nell'appunto di Cavina c'è il numero della strada.
ROMANO PRODI: Può darsi che negli appunti ci sia perchè dopo abbiamo visto sulla carta, strada statale, i monti vicini. L'importante è che si trattava del nome di un paese che a detta di tutti nessuno dei presenti conosceva. Capisco che era tutta un'atmosfera irragionevole, però...
SCIASCIA: Non mi sembra determinante il fatto che non si conoscesse il nome. Viterbo si conosceva e poteva benissimo trattarsi anche di Viterbo.
ROMANO PRODI: Se fosse stato Viterbo, non ci avrei badato perchè si può sempre comporre una parola che si conosce.
SCIASCIA: Chi ha deciso di comunicare all'esterno il risultato della seduta?
ROMANO PRODI: L'ho fatto io perchè ero l'unica persona che conoscesse qualcuno a Roma. Ho parlato con tutti, con Andreatta etc. Non è che ho telefonato d'urgenza; ho detto vado a Roma e lo comunico. Questo è stato deciso una volta che si è saputo che esisteva questo paese che nessuno conosceva.
SCIASCIA: Ora le farò una domanda che farò a tutti. Lei ha mai conosciuto nessuno accusato o indiziato di terrorismo?
ROMANO PRODI: Mai.
COVATTA: II senso della domanda è se qualcuno aveva interesse ad ispirare gli spiriti.
ROMANO PRODI: E' sempre la domanda che mi sono sempre posto anch'io.
BOSCO: All'interrogativo che si è posto, come ha risposto? Cioè se qualcuno poteva aver ispirato gli spiriti.
ROMANO PRODI: Lo escluderei assolutamente.
BOSCO: Quindi si è trattato di spiriti.
ROMANO PRODI: O del caso ... Non so ... Mi sembra che il senso della domanda dell'onorevole Covatta sia quello di chiedere se c'era qualcuno che voleva fare «il furbetto», spingendo in un certo modo o rallentando. Questo no. D'altra parte...
FLAMIGNI: Se avessimo ascoltato un riferimento di quella seduta in maniera molto impegnata e che i protagonisti credevano veramente allo spiritismo e alla possibilità di avere qualche forza in aiuto, allora mi darei una spiegazione, ma proprio perchè il professor Prodi parla di tutto ciò come un gioco, la mia curiosità si accentua. Ritengo che qualcuno potesse anche sapere. Parto da questa considerazione per dire che voglio conoscere le domande effettive e le risposte che sono venute fuori.
ROMANO PRODI: Ho detto le domande effettive e le risposte. Uno dei problemi che si pone per una cosa del genere è proprio quello contenuto nella sua domanda. Crede che quando è uscito il nome di via Gradoli io non mi sia posto il problema di chiedermi se c'era qualcuno che faceva il furbo? Altrimenti non sarei qui in questa situazione in cui mi sento estremamente imbarazzato ed estremamente ridicolo" (…)

Anonimo ha detto...

Forza De Magistris, Woodcok (si scrive così?), Lepore e tutta la procura napoletana, Procura di Santa Maria Capua Vetere.
Continuate così. Siamo con voi!

Anonimo ha detto...

C'è sempre qualcuno che vuole metterci i piedi in testa ed espropriarci dei nostri diritti più naturali. Abbiamo vissuto, e continuiamo a farlo, rispettando il prossimo e costruendo una società più giusta in cui tutti rispettino le regole e in cui sia rispettato il ruolo di ognuno. Purtroppo c'è sempre il falco predatore che alle nostre spalle azzera la dignità e si appropria di ciò che ci spetta. Continuiamo a costruire sogni e a sognare.

Anonimo ha detto...

I cannoli di Cuffaro (*)

I giudici ci liggèru / a sintenza
e iddu respirò / e lassò a decenza
dicènnu ch’era / un veru granni abusu
siddu u pigghiàvanu / pi mafiusu.

Allura si chiamàru / i giornalisti
‘nsèmmula a ‘na pocu / ‘i telecronisti
picchì Totò / cu paroli amari
dicia ca ‘un’avia / nuddu cumpari.

Ma un amicu pinsò / e’ cosi duci
e o postu / d’a solita caciotta
purtò i duci / cannola ‘i ricotta.

Totò raggianti / pigghiò sta guantèra
e ìa offrennu / i cannola spiciali,
ma na fotografia / fu fatali.

Ora sta fiura / firria pi u munnu
ed è pi tutti / a maravigghia granni
pi sta festa / cu a cunnanna a cinc’anni.

Pino Scimeca


(*) Sonetto caudato. Schema metrico: AABB CCDD EFF GHH ILL

Voglio dire: nelle nostre terre del Sud la "P"olitica è un'utopia. A fare la differenza è il peso dei voti. Ma i voti li si conquista in ogni modo.

Anonimo ha detto...

Il MOSTRO DELLA PIANURA*
di
Nicola Corrado

La terra del sole e del pomodoro si affacciava sul mare e stendeva il suo corpo colorato e sinuoso dalle stelle del cielo fino alla luce del tramonto; intorno facce, sorrisi, pianti, note, pasta e pesce, vele e vento, e poi campi, chiese, vicoli, sapori, intelligenza e cattiveria, umanità.Qualcuno disse che lì un tempo splendeva la felicità grazie alle speranze e alle debolezze degli adulti.

Poi, non si sa come e quando, arrivò in quelle terre dopo un lungo viaggio il MOSTRO DELLA PIANURA: aveva mille mani e centomila occhi, e un cuore lungo 2 KM e largo 4 KM, mangiava le speranze, le debolezze e l’immondizia degli adulti.
Un giorno vennero i governanti chiamati dagli adulti per sconfiggere il MOSTRO, ognuno con una valigia piena di grandi discorsi e dentro parole cucite a mano per fare splendere di più la felicità.

Ma i governanti svuotarono le loro valigie e dentro misero le speranze e le debolezze degli adulti fino a quando gli abitanti della terra del sole e del pomodoro si ribellarono e chiesero di riavere indietro i loro sentimenti perché la felicità si stava spegnendo.
I governanti scapparono su un monte alto circondato da una foresta di marmo e pietra, nella fuga lasciarono alcune valigie e quel giorno nella piazza della pizza gli adulti fecero festa e decisero di consegnare le valigie a chi sarebbe stato in grado di affrontare e sconfiggere il MOSTRO della PIANURA.
Alla fine della festa si fece avanti un uomo del paese delle fragole: NIO.
NIO era alto e aveva la bocca grande e le mani forti, parlava poco ma aveva coraggio; anni prima si era opposto ai governanti e aveva gridato contro il MOSTRO DELLA PIANURA.
Quella sera partì alla ricerca del mostro e gli adulti lo seguirono portando con loro le valigie.
Iniziò la guerra e la felicità tornò a splendere, il loro piano era semplice ma efficace: affamare il mostro.Era necessario raccogliere bene bene l’immondizia separandola dalle speranze e dalle debolezze e poi bruciarla.

Il mostro gridava per la fame, le mani cadevano e gli occhi si chiudevano, il cuore era debole, e tutti pensarono che in poco tempo sarebbe morto.
Ma il Mostro, ormai senza forze, raggiunse i governanti e li convinse ad aiutarlo.
Per anni non si ebbero più notizie del Mostro, era nascosto così bene che nessuno riuscì a trovarlo, e tutti pensarono che fosse morto.
Intanto i governanti convinsero tutti che bruciare l’immondizia avrebbe oscurato la felicità e dissero che il Mostro era morto e che non c’era da avere paura, loro avrebbero raccolto tutta l’immondizia , l’avrebbero sotterrata e avrebbero aiutato NIO a fare splendere la felicità.

E così l’immondizia fu raccolta e fu portata in pasto al Mostro della PIANURA che diventò più forte e più crudele.
Fu allora che il Mostro decise di oscurare la felicità: riempì le strade d’immondizia e la bruciò insieme alle speranze ed alle debolezze degli adulti, il fumo nero coprì il cielo e le fiamme sporche riscaldarono un inverno indimenticabile.
Nio e tutti gli adulti erano stati sconfitti, avevano perduto le speranze e le debolezze, l’urlo del Mostro della PIANURA riempì l’aria e la FELICITA’ si spense.
Ma quando tutto sembrava perduto, i bambini con i loro sogni e le loro paure si riunirono nella piazza della pizza e giurarono di uccidere il Mostro.
Il giorno dopo pulirono le strade, separarono bene bene l’immondizia e decisero di difenderla nelle loro scuole e ogni giorno per giorni portarono la plastica, le lattine, i barattoli, i tappi, il ferro, l’alluminio, tutto dentro le scuole.
Gli adulti ritrovarono le speranze e le debolezze e costruirono un grande camino e lì bruciarono tutta l’immondizia della terra del sole e del pomodoro che i bambini avevano raccolto nelle scuole, la felicità tornò a splendere.

Fu allora che il Mostro affamato e arrabbiato entrò nelle scuole per mangiare l’immondizia ma i bambini lo stavano aspettando e quando aprì la bocca gridarono i loro sogni e le loro paure, la felicità si illuminò d’immenso e la luce fu così forte da accecare il Mostro, da spezzargli il cuore.
Così i bambini uccisero il MOSTRO DELLA PIANURA e salvarono la terra del sole e del pomodoro.

Anonimo ha detto...

Tenesseve 'nu postariello inta una lista blindata?

Anonimo ha detto...

Datemi un ombrello. Possibilmente non bucato

Anonimo ha detto...

Walter facci sognare!
Via tutti i politici campani dalle liste.
Porta noi in parlamento. Siamo pronti.